Gli Emirati Arabi Uniti (EAU), nati nel dicembre 1971, dopo essere stati protettorato britannico dal 1853, sono riusciti a diventare in pochi decenni una meta turistica internazionale e, soprattutto grazie a Dubai, anche un dinamico centro per la finanza e lo sviluppo immobiliare. All’arrivo si rimane abbagliati dalla miriade di grattacieli e di centri commerciali tra i più grandi del mondo ma, dietro lo splendore rutilante del consumismo sfrenato, si cela uno dei regimi più oppressivi, iniqui ed eco-distruttivi del mondo. Un nuovo libro di Emanuele Felice, ordinario di Politica economica nell’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara, contribuisce a far luce sulla realtà di un Paese che intende proporsi come modello per il capitalismo del XXI secolo.
Bisogna riconoscere che la dinastia degli al-Maktoum, la famiglia che dalla prima metà dell’800 regge le sorti di Dubai, l’emirato più spregiudicato e calcolatore tra i sette che compongono gli EAU, ha dimostrato una indubbia capacità di generare ricchezza e innovazione in un lembo di terra che appariva come una scatola di sabbia arroventata dal sole. In questo caso non vale l’equazione tra deserto e petrolio perché non solo l’oro nero è stato scoperto qui soltanto nel 1966 (è Abu Dhabi ad avere il 95% delle riserve petrolifere), ma rappresenta oggi soltanto il 5% delle entrate. Come è possibile allora che Dubai sia diventato non solo una meta turistica internazionale ma anche un centro finanziario e logistico che fa concorrenza a grandi centri come Singapore e Hong Kong?
Porti, grattacieli e centri commerciali
Per capire le dinamiche economiche locali dobbiamo tener conto che a Dubai potere politico ed economico coincidono nella persona di Mohammed bin Rashid al-Maktoum, salito al potere nel 2006 come emiro di Dubai, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti. Seguendo le orme del suo antenato Maktoum bin Hasher che, sotto il patrocinio degli inglesi aveva iniziato lo sviluppo commerciale di Dubai alla fine dell’800, Mohammed ha trasformato il suo emirato nel principale porto franco per le merci provenienti dall’oriente e dirette verso l’Europa. Lo strumento gli è stato fornito dalla politica visionaria di suo padre Rashid che con la creazione di Jebel Ali, inaugurato nel 1979, ha dato vita al maggiore porto artificiale del mondo. In questa enorme struttura si è sviluppata la più grande “zona libera” a livello mondiale nella quale operano più di 7 mila imprese e lavorano 150 mila persone.
A Dubai non si pagano tasse, né sul reddito né sui profitti, e l’IVA (solo al 5%) è stata introdotta nel 2018. Esiste una legge del 1969 che, per modernizzare il Paese, ha introdotto la tassazione progressiva per scaglioni di reddito ma è sempre rimasta lettera morta e non è mai stata applicata. Nel 2004 viene creato il Dubai International Financial Centre che, oltre a non imporre tasse, garantisce che questa situazione perdurerà per cinquant’anni. Alle imprese straniere è consentita la proprietà al 100% e qui vale un’ulteriore eccezione perché non viene applicata la legge emiratina ma esistono appositi tribunali e giudici provenienti da Paesi che applicano la common law, come il Regno Unito, Singapore e Hong Kong. Non possiamo quindi stupirci del fatto che Dubai sia diventata la capitale mondiale del riciclaggio secondo McMafia, l’esplosivo libro del 2008 del giornalista inglese Misha Glenny. Il libro documenta come dopo la caduta dell’URSS Dubai sia diventato il punto di incontro di quasi tutte le mafie mondiali, da quelle russe alle Triadi di Hong Kong, dalla yakuza giapponese alla ‘ndrangheta calabrese.