Forse soltanto Dante sarebbe in grado di descrivere adeguatamente l’attacco e la distruzione delle Torri gemelle, il terrore, il fuoco, l’odore acre della devastazione, i corpi che cadevano dai grattacieli, il prete che impartiva l’estrema unzione a vigili del fuoco che andavano ad affrontare una morte sicura ma non mostravano nessuna esitazione. La prima tragedia storica che avveniva in diretta televisiva di fronte agli occhi di un mondo impietrito. Nell’aprile del 2009 L’ Aquila fu colpita da un devastante terremoto e, nello stesso momento in cui centinaia di persone perdevano la vita e tutto quanto possedevano, un costruttore edile se la rideva nel proprio letto, pregustando i lauti profitti che avrebbe tratto dalla ricostruzione. Possiamo immaginare che, allo stesso modo, qualcuno negli Stati Uniti possa aver avuto pensieri simili e, con cinismo disumano, abbia intravisto gli enormi guadagni che si profilavano all’orizzonte. A oggi, la cosiddetta “guerra al terrorismo”, scaturita da quell’infausta giornata, è costata la strabiliante cifra di 2.300 miliardi di dollari.
Dopo il crollo del Muro di Berlino, lo storico e politologo nippo-americano Francis Fukuyama elaborò il concetto di “fine della storia” per descrivere un mondo dominato dagli Stati Uniti, che il crollo dell’impero sovietico aveva trasformato nell’unica superpotenza rimasta. Gli sviluppi che si sono succeduti dagli anni Novanta del secolo scorso, con l’emergere della potenza commerciale e militare della Cina, hanno dimostrato la fallacia di una tale analisi ma quel concetto, opportunamente trasformato, potrebbe rivelarsi oggi utile per capire come gli studiosi si sono posti di fronte all’attacco terroristico che distrusse il World Trade Center, esattamente vent’anni fa. Parafrasando Fukuyama, si potrebbe piuttosto parlare di “fine degli storici” per la loro incapacità di offrire una lettura adeguata, pur a distanza di due decenni, di un evento che ha avuto un impatto traumatico sull’immaginario collettivo americano e mondiale ma che, quasi certamente, non ha rappresentato un vero spartiacque nel corso della storia, come molti pretenderebbero.
L’attacco dell’11 settembre creò certamente le condizioni che permisero all’amministrazione di George W. Bush, ma soprattutto di Dick Cheney e dei neocons, di lanciare la guerra contro l’Afghanistan e, successivamente, l’Iraq per punire chi aveva aiutato i terroristi a colpire l’America e ridisegnare la mappa del mondo, esportando la democrazia, sul modello della civiltà occidentale. Ma quel piano era velleitario, incompetente e, sotto la flebile motivazione umanitaria, aveva permesso una formidabile iniezione di profitti in una florida e potentissima istituzione che il presidente Eisenhower aveva definito con grande acume e lungimiranza “complesso militare-industriale”. E la caotica e umiliante fuga da Kabul delle truppe americane, rimpiazzate beffardamente dai vecchi nemici di ieri, mette a nudo la drammatica incapacità degli Stati Uniti di realizzare quel grande progetto di nation building che, in un diverso contesto e con un’altra classe politica, aveva portato a termine con successo dopo la Seconda guerra mondiale.
Le contraddizioni stridenti
Le operazioni sporche dei servizi segreti sono spesso facilitate dalla diffusione massiccia di informazioni false, semivere, fuorvianti, verosimili o assurde, il cui obiettivo è quello di creare quanta più confusione possibile, allo scopo di favorire il successo della strategia che si persegue. L’intelligence di Mosca ha un alto grado di specializzazione in questo campo, tanto che la parola russa desinformazia viene ormai usata a livello internazionale per descrivere il fenomeno. Ma anche gli americani non sono dei pivellini in questo campo, visto la mole enorme di saggi, articoli, libri, teorie, ipotesi di complotti, filmati dubbi che ci hanno inondato. Usando internet come un moltiplicatore incontrollabile, siamo stati subissati da una quantità enorme di materiale che ha affermato tutto e il suo contrario. A questo punto è diventato veramente complesso districarsi nel mare magnum di informazioni. Per fortuna, ci sono dei fatti incontrovertibili che possiamo mettere in fila nel tentativo di capire quello che è successo e valutare l’adeguatezza della risposta degli Stati Uniti.
In primo luogo, è ormai assodato che il commando terroristico era formato da 19 affiliati al gruppo islamista di Al Qaeda, capeggiato dal saudita Osama bin Laden. Quindici erano cittadini dell’Arabia Saudita, due degli Emirati Arabi Uniti, uno del Libano e uno dell’Egitto. Lo stesso Osama bin Laden era perfettamente conosciuto dai servizi segreti statunitensi, visto che, negli anni ’80 del secolo scorso, erano stati proprio loro ad addestrarlo e armarlo in funzione antisovietica in Afghanistan, diventato poi la base operativa di Al Qaeda. Nel 2005, la Freedom House, un’autorevole organizzazione non governativa internazionale con sede a Washington, fece una ricerca capillare sulle pubblicazioni che venivano distribuite nelle moschee e in vari centri studi islamici attivi negli Stati Uniti con finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita. Il rapporto, intitolato “Saudi publications on hate ideology invade American mosques” (Le pubblicazioni saudite sull’ideologia dell’odio invadono le moschee americane) concludeva che tutto il materiale, sia in arabo che in inglese, era prodotto direttamente da enti che facevano capo al governo saudita e rifletteva una visione fanaticamente antioccidentale e ostile agli “infedeli”, identica nel linguaggio e nelle argomentazioni ai pamphlet diffusi da Al Qaeda.
Qualunque studioso di storia araba sa perfettamente che il wahhabismo, la concezione
estremistica dell’islam fatta propria dall’Arabia Saudita, è alla base del fondamentalismo islamico che ha successivamente dato vita a varie forme di terrorismo antioccidentale. Ma, inspiegabilmente, questo radicalismo religioso non ha mai impedito alla casa regnante saudita di fare accordi e ingenti investimenti negli Stati Uniti, senza che nessuna forza politica avesse nulla da eccepire. La famiglia di George W. Bush, attiva nel settore petrolifero, aveva rapporti d’affari diretti con i sauditi. La prima società creata dal futuro presidente, la Arbusto Energy, ottenne nel 1979 un finanziamento di 50.000 dollari da James Bath, un amico di famiglia che, in quel momento, era l’unico rappresentante negli Stati Uniti di Salem bin Laden, fratellastro di Osama. La famiglia Bush nega recisamente che quei soldi venissero dal magnate saudita ma certo la circostanza è molto imbarazzante per chi si è poi trovato a guidare l’offensiva contro una rete terroristica capeggiata dal fratello di un uomo con cui c’era stata una certa contiguità finanziaria. Nonostante la “pecora nera” bin Laden e i numerosi imam sauditi espulsi dal FBI per collegamenti col terrorismo, i rapporti con Riad sono rimasti stretti, cordiali e duraturi, visto anche che il primo viaggio all’estero del presidente Trump ha avuto come meta proprio l’Arabia Saudita.
Nel settembre del 2016, il Congresso statunitense votò una risoluzione per consentire agli eredi delle vittime delle Torri gemelle di promuovere cause civili contro l’Arabia Saudita. Un rapporto ufficiale successivo ha negato che i terroristi avessero rapporti diretti con strutture governative saudite, anche se non ha potuto escludere che “privati cittadini” sauditi abbiano potuto sostenere i terroristi. Nonostante la contrarietà del governo americano, molte famiglie delle vittime dell’11 settembre continuano la loro azione per ottenere un risarcimento da parte dei sauditi. Perché tutte le inchieste serie sulle reti saudite negli USA e sui contatti di bin Laden sono sempre state bloccate? Perché non è mai stata fatta chiarezza su questo punto?
Un secondo aspetto che lascia profondamente interdetti è l’enorme facilità con cui un gruppo di 19 giovani, fanatici e determinati sicuramente, ma con una preparazione fisica e psicologica nemmeno lontanamente paragonabile a quella delle forze speciali statunitensi, abbia potuto dirottare quattro aerei e usarli per colpire il cuore del potere americano. Due aerei si schiantarono contro le Torri gemelle, un terzo centrò il Pentagono, mentre il quarto aereo, che aveva probabilmente come bersaglio la Casa Bianca o il Campidoglio, precipitò in un campo a Shanksville in Pennsylvania, dopo che i passeggeri avevano reagito e affrontato eroicamente i dirottatori, facendo fallire il piano di raggiungere Washington. In quella tragica mattina di settembre, l’aviazione militare teneva un’esercitazione che impedì ai caccia di arrivare in tempo a New York. Ma come è possibile che la città più importante degli Stati Uniti, il simbolo stesso dell’Occidente, non avesse nessuna copertura aerea in quel momento? Come hanno riferito decine di piloti civili, la deviazione dal tracciato prestabilito di un aeromobile fa scattare immediatamente la risposta dei caccia militari che, nel giro di pochi minuti, affiancano l’aereo che vola fuori rotta e lo costringono a rientrare. Nulla di tutto questo è avvenuto. Come mai il Pentagono, che ospita le strutture che gestiscono le più potenti e finanziate forze armate del mondo, non è riuscito ad attivare il sistema di difesa missilistica contro un bersaglio lento come un grosso aereo passeggeri in avvicinamento? Come è possibile che il cuore pulsante del sistema militare statunitense avesse difese degne di una casa di riposo per anziani?
La domanda più angosciante, che non solo non ha mai avuto risposte ma non è mai stata veramente formulata, è perché dopo il terribile fallimento, non solo dell’intelligence ma dell’intero apparato militare, non sia stata compiuta una ristrutturazione drastica con l’individuazione delle falle e l’epurazione di tutti coloro che non si erano dimostrati all’altezza. Perché non si è aperto nessun vero dibattito nazionale per affrontare alle radici le cause del disastro? Di fronte al più grave attacco interno della propria storia, l’amministrazione americana ha reagito rabbiosamente, preparandosi a colpire l’Afghanistan che dava ospitalità a bin Laden, dimenticando forse che l’azione terroristica non era stata condotta da islamisti fanatici armati di kalashnikov, ma da estremisti che avevano frequentato scuole di volo negli USA. E a proposito, perché fu lasciata cadere la segnalazione del funzionario del FBI di Atlanta che reputava strano il fatto che dei cittadini stranieri chiedessero soltanto di imparare a pilotare un aereo ma non erano interessati alle manovre di atterraggio?
L’invasione dell’Afghanistan fu la risposta giusta?
Nell’attacco terroristico perirono 2.977 vittime, a cui si devono aggiungere le centinaia di vigili del fuoco e poliziotti che morirono di tumore per aver respirato i fumi tossici che si erano sprigionati dopo il crollo delle torri. A differenza dell’Europa e del Giappone, che vissero sulla propria pelle le distruzioni della guerra, gli Stati Uniti concepivano i conflitti come qualcosa che toccava Paesi lontani e il loro unico contatto con la tragedia era il rimpatrio dei corpi del soldati uccisi, che gettavano in lacrime le famiglie, ma avevano un limitato impatto sociale. L’11 settembre cambiò tutto e, per la prima volta, i cittadini statunitensi si resero conto che anche loro potevano diventare vittime, nella propria città, mentre erano in ufficio a lavorare. L’impatto emotivo fu devastante e tutto il Paese si unì nel chiedere che i responsabili pagassero per quel crimine orrendo. Dopo che i talebani rifiutarono di consegnare bin Laden, che aveva la sua base operativa in Afghanistan, gli USA, col supporto della NATO e di moltissimi altri Paesi, lanciarono un’offensiva militare che portò in breve alla sconfitta degli studenti islamici.
Oggi, dopo il ritorno al potere dei Talebani, alcuni funzionari occidentali si chiedono se gli Stati Uniti sfruttarono fino in fondo la strategia diplomatica per ottenere la consegna dei terroristi di Al Qaeda, prima di passare all’opzione militare. È possibile che, allora, quella militare fosse l’unica strategia percorribile, visto il rigido fanatismo che governa tutt’ora l’ideologia talebana. Ma non dimentichiamo che la guerra in Afghanistan consentì all’aviazione americana di testare l’efficacia di una bomba di potenza inusitata, capace di penetrare nel terreno per oltre trenta metri e quindi in grado di distruggere bunker a grande profondità. L’effetto fu devastante, non solo per i combattenti islamici che avevano trovato rifugio nelle grotte delle montagne, e contribuì a lanciare un potente messaggio a tutti i potenziali nemici dell’America. Ma se i terroristi di Al Qaeda e i loro protettori talebani erano un pericolo così terribile per gli Stati Uniti perché le colonne dei nemici che fuggivano, con armi e mezzi, verso il Pakistan non furono colpite, risolvendo il problema alla radice? L’intera dirigenza talebana fu evacuata grazie a un ponte aereo dell’ISI, il potente servizio segreto pakistano, e raggiunse senza problemi il Pakistan dove si è potuta riorganizzare e tornare poi a riprendere il potere a Kabul vent’anni dopo. Se i talebani erano acerrimi nemici perché l’amministrazione Bush permise a Islamabad, considerato un alleato nella fantomatica “lotta al terrorismo”, di salvarli senza nessuna ritorsione? È solo un caso che il nemico pubblico n.1 degli Stati Uniti, il feroce miliardario saudita Osama bin Laden, sia stato individuato e ucciso in Pakistan, in una residenza protetta distante soltanto poche centinaia di metri da un centro dei servizi segreti pachistani?
Improvvisamente, dopo i successi militari e la fuga degli studenti coranici, l’amministrazione statunitense, nonostante il fatto che Osama fosse sfuggito alla cattura e la sua rete fosse ancora attiva, sposta inspiegabilmente la propria attenzione dall’Afghanistan all’Iraq, su cui concentra tutta la propria forza. Viene lanciata una campagna internazionale sul pericolo delle “armi di distruzione di massa” nella mani del dittatore iracheno Saddam Hussein, ferocemente ostile ad Al Qaeda di cui aveva ripetutamente massacrato i militanti. Contro di lui viene messo in campo il più grande esercito dai tempi della Seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti dimostrano al mondo che possono spostare velocemente centinaia di migliaia di soldati, esibendo un’efficienza logistica e una capacità di manovra di altissimo livello.
Saddam Hussein era collegato agli attentati dell’11 settembre? No, nel modo più assoluto. A guerra iniziata, e con l’Iraq occupato dalle truppe a guida statunitense, venne dimostrato che le pericolosissime “armi di distruzione di massa” erano state un tragico falso realizzato dall’amministrazione Bush, capillarmente controllata da neocons fanatici, consumati dal sacro fuoco dell’esportazione della democrazia. Ma, a parte alcune deboli rimostranze da parte del presidente francese Jacques Chirac, nessun governo occidentale osò mettere in discussione le decisioni arbitrarie della Casa Bianca (seguita come un cagnolino dal britannico Tony Blair). Quella strategia fallimentare (ma che ha permesso guadagni enormi alle industrie belliche statunitensi) ha abbandonato cinicamente l’Afghanistan al proprio destino, ha distrutto la società e l’economia irachene e ha permesso l’ascesa dello Stato islamico che è stato combattuto e sconfitto grazie anche alle milizie curde in Siria e in Iraq. Una volta ridimensionato l’Isis, gli USA hanno abbandonato anche i curdi che si sono trovati a combattere su due fronti, contro l’estremismo islamico e contro le sanguinarie milizie mercenarie stipendiate dai turchi. Se non ci fosse stato l’11 settembre, l’opinione pubblica americana, molto sensibile anche al tema di come vengono spesi i soldi dei contribuenti, non avrebbe mai accettato una campagna bellica all’estero con obiettivi così nebulosi e una strategia tanto confusa e fallimentare.
USA: tra isolazionismo e interventismo
Nella percezione comune, si ritiene che gli Stati Uniti siano assurti al ruolo di grande potenza dopo la Seconda guerra mondiale, trascurando però il fatto che già intorno al 1885 erano diventati il principale Paese industriale al mondo, superando il Pil dell’Impero britannico. Tutti presi dal loro frenetico sviluppo economico, gli americani erano molto restii a farsi coinvolgere negli affari europei e professavano un rigido isolazionismo, convinti che il modo migliore di difendere i propri interessi fosse quello di far crescere il più possibile l’economia. Forte della propria prosperità, l’elite statunitense si rendeva però perfettamente conto della necessità di iniziare a svolgere anche un ruolo politico internazionale, non solo rivolto al continente americano, come stabiliva la dottrina Monroe, ufficializzata al Congresso nel 1823. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, molti membri di influenti circoli ritennero che se si voleva avere voce in capitolo nella riorganizzazione globale che sarebbe seguita alla fine della guerra, era necessario intaccare il coriaceo isolazionismo del cittadino medio.
Il 7 maggio 1915 il sottomarino tedesco U-20, che incrociava a circa 15 miglia nautiche dalla costa meridionale dell’Irlanda, affondò il transatlantico britannico Lusitania, partito sei giorni prima da New York alla volta di Liverpool. Nell’affondamento morirono 1198 persone, inclusi 123 cittadini statunitensi, tra cui Alfred Vanderbilt, appartenente alla famosa famiglia di miliardari. Il clamore dell’affondamento facilitò l’inizio di una intensa campagna antipacifista che, due anni più tardi, portò all’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco della Gran Bretagna. La stampa interventista si guardò bene dal far riferimento al fatto che, oltre ai passeggeri e all’equipaggio, il Lusitania trasportava un carico di bombe e munizioni per fucili (circa 173 tonnellate di materiale bellico) destinate all’esercito britannico e questo, nell’ottica del comando militare tedesco, ne faceva un legittimo obiettivo. Forse gli Stati Uniti sarebbero entrati in guerra anche senza l’affondamento del Lusitania, ma è innegabile che fu proprio la rabbia per l’accaduto che riuscì a smuovere l’opinione pubblica.
Un meccanismo simile avvenne per l’attacco giapponese a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, che portò all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Data la natura delicatissima della questione, non esiste una bibliografia molto vasta sull’argomento (non vale la pena di prendere in considerazione le tante teorie complottiste che non possiedono nessuna validità storica e metodologica), ma nondimeno ci sono una serie di elementi e testimonianze che indicano come il presidente Roosevelt e i suoi consiglieri militari fossero a conoscenza delle intenzioni giapponesi, ma decisero di non prendere contromisure perché si rendevano conto che, senza uno shock drammatico, l’opinione pubblica non avrebbe mai accettato l’entrata in guerra e gli enormi costi umani che questo avrebbe comportato. Il fatto è abbastanza scontato tanto che una ventina di anni fa la stessa BBC trasmise un documentario intitolato Betrayal at Pearl Harbor (Tradimento a Pearl Harbor), ritrasmesso poi dall’History Channel, il canale televisivo americano che si occupa principalmente di storia.
Uno dei pochi studi affidabili che affronta direttamente la questione è Day of Deceit: the Truth about FDR and Pearl Harbor (Il giorno dell’inganno. La verità su Franklin D. Roosevelt e Pearl Harbor), di Robert Stinnet, un ex ufficiale di marina statunitense che servì tra il 1942 e il 1946, guadagnandosi dieci decorazioni sul campo e una Presidential Unit Citation. Stinnet riferisce che nel 1941 le stazioni di controllo gestite dagli Stati Uniti a Corregidor, un’isola nella Baia di Manila, avevano intercettato almeno mille messaggi radio giapponesi, la cui sintesi era poi stata girata alla Casa Bianca. Il contenuto era chiaro e inequivocabile: il 7 dicembre 1941 forze giapponesi avrebbero attaccato la base americana di Pearl Harbor. La stessa informazione era stata trasmessa anche da due delle principali spie che lavoravano per gli Alleati: il tedesco Richard Sorge, al servizio dei russi, e il serbo Duško Popov, membro dell’Abwehr, il servizio di spionaggio militare tedesco, e doppiogiochista per i britannici. Tutti gli studiosi hanno ben chiaro in mente che senza l’intervento americano il nazismo in Europa non sarebbe stato sconfitto e che, quindi, la scelta di Roosevelt rivela una sua valenza etica. Il problema si pone quando teorie fantasiose e storicamente arrischiate vengono usate per una politica di potenza che porta morte e distruzione, come è avvenuto nella guerra del Vietnam o nel sostegno americano alle feroci dittature sud americane in nome di un “pericolo comunista” tutto da dimostrare.
Il gruppo dei neocons e l’11 settembre
L’attacco del terrorismo all’America e all’Occidente non può essere capito senza prendere in considerazione il ruolo dei neoconservatives, meglio noti come neocons, un gruppo di influenza che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, svolse un ruolo sempre più determinante, fino ad arrivare a controllare le principali leve del potere durante le due amministrazioni di George W. Bush. Uno dei padri del movimento fu l’ex trotzkista Irving Kristol, che si staccò dall’ala liberal del Partito democratico, temendo che gli Stati Uniti volessero abdicare al loro ruolo di perno delle relazioni internazionali e venir meno al loro tradizionale ruolo anticomunista. Lo slogan “pace attraverso la forza” guadagnò loro immediatamente il sostegno della destra repubblicana, della potente lobby delle armi e, soprattutto, l’appoggio incondizionato del “complesso militare industriale”. Il salto di qualità si verifica nel febbraio 1992, quando il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, uno dei principali neocon, elabora una proposta in cui teorizza che, dopo il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti sono ormai l’unica superpotenza rimasta per cui devono perseguire i loro obiettivi in maniera unilaterale, imponendoli anche con la forza militare se necessario. Questi concetti vengono inglobati all’interno del Defense Planning Guidance for the 1994–99, il documento ufficiale che fissa la strategia militare. Successivamente, lo studio viene rielaborato sotto la supervisione del segretario alla Difesa Dick Cheney e il Capo di Stato maggior della Difesa Colin Powell e pubblicato il 16 aprile 1992.
Ecco pronto lo strumento per la futura invasione dell’Iraq, una volta che si sarà creato il giusto clima politico. Le linee strategiche sostenute dai necons sono: l’unilateralismo interventista, il ridimensionamento dell’ONU, la preminenza dei “valori americani” in un’ottica di scontro di civiltà, lo stretto legame tra Israele, considerato la testa di ponte occidentale in Medio Oriente, e la politica estera americana, il rifiuto della Corte Penale Internazionale e il sostanziale disprezzo per l’Europa, che si crogiola nella difesa teorica dei diritti umani ma poi non prende mai iniziative per difenderli concretamente. Queste idee sono molto radicali e sollevano diverse obiezioni e perplessità tra i comuni cittadini americani, sia democratici che repubblicani. La pubblica opinione potrebbe cambiare atteggiamento soltanto in presenza di un drammatico evento epocale. Alla luce degli attentati dell’11 settembre, non si può che essere colpiti dal fatto che una delle principali associazioni dei neocons, il Project for the New American Century, creato e animato da William Kristol e Robert Kagan e attivo dal 1997 al 2006, abbia sostenuto in un suo documento che per imporre all’establishment e all’opinione pubblica la drastica riorganizzazione della politica estera americana ci sarebbe voluto un evento straordinario e catastrofico, come “una nuova Pearl Harbor”.
Lo studio, pubblicato nel settembre del 2000, è intitolato Rebuilding America’s Defenses:
Strategies, Forces, and Resources For A New Century (“Ricostruire le difese americane: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”) e a pag. 51 contiene un’affermazione che, con il senno di poi, fa venire la pelle d’oca: “Inoltre, il processo di trasformazione, anche se porterà a cambiamenti rivoluzionari, sarà probabilmente molto lungo, a meno che non si verifichino alcuni eventi catastrofici che facciano da catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor”. La “nuova Pearl Harbor” sarebbe purtroppo arrivata l’11 settembre 2001, e l’America sotto shock seguì senza fiatare le direttive delle eminenze grigie che controllavano la Casa Bianca di George W. Bush, e cioè il suo vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.
Considerazioni finali
Se associamo le immagini terribili delle Torri gemelle in fiamme a quelle altrettanto atroci dei giovani afghani che si aggrappano disperati agli aerei americani in fuga dall’aeroporto di Kabul, non possiamo non concludere che gli Stati Uniti in primis, ma anche tutto l’Occidente, hanno fallito. Le migliaia di morti di quel giorno ormai lontano sarebbero stati veramente vendicati se l’Afghanistan fosse stato trasformato in una società più aperta, con norme sociali più moderne, con un’economia che inizia a fiorire, con il riconoscimento del diritto allo studio, per bambini e bambine, con un sistema sanitario accettabile, dopo oltre quarant’anni di guerra contro gli invasori e poi tra i vari potentati locali. A distanza di vent’anni, dobbiamo provare ancora una profonda pietà per quelle vittime innocenti, ma non possiamo dimenticare che per punire i carnefici sono state fatte decine di migliaia di vittime, altrettanto innocenti, “effetti collaterali” di una scelta politica che si è rivelata crudele ma, soprattutto, fallimentare. Forse dovremmo chiederci se non sia arrivato il momento di sostituire il vecchio motto latino Si vis pacem, para bellum, che piaceva tanto ai neocons, con una strategia diversa, che non punti soltanto sulla forza militare, ma privilegi l’educazione e lo sviluppo economico, nel rispetto delle culture locali. Questo sarebbe il modo più giusto e umano di onorare le vittime dell’11 settembre e contribuirebbe ad alleviare il dolore per la loro perdita.
Galliano Maria Speri