Con la sua aggressiva politica di sviluppo urbano e megaprogetti visionari, il nuovo sultano di Istanbul è stato molto abile nel costruirsi uno zoccolo duro di sostenitori fedeli. Le grandi città si sono riempite di grattacieli, moschee, ponti avveniristici, centri commerciali, aeroporti colossali, quartieri modernissimi ma a costi enormi per l’ambiente e la società. La gentrificazione forzata dei centri storici e la nascita di quartieri chiusi riservati ai ricchi non sono però effetti collaterali non voluti, ma fanno parte della strategia del divide et impera del governo islamico-liberista. Cosa avverrà se la crisi economica bloccherà i grandi progetti?
Giovanna Loccatelli, giornalista freelance che collabora con importanti testate italiane ed europee, vive a Istanbul da qualche anno, dopo aver lavorato al Cairo, e ha quindi maturato una esperienza diretta della sconvolgente trasformazione che, a ritmi sempre più accelerati, ha modificato radicalmente l’urbanistica e la vita sociale di Istanbul, Ankara e Smirne e, in generale, di tutto il Paese. Il suo ultimo libro, L’oro della Turchia, è molto interessante non solo perché riporta in modo vivido la diretta esperienza dell’autrice, ma per il punto di osservazione scelto che sviscera un aspetto poco conosciuto della strategia di Erdogan: la sua politica edilizia che mescola progetti imponenti, strutture all’avanguardia, bieca speculazione e religiosità popolare e rappresenta l’asse portante della sua base di potere.
Il grande disegno di potenza
Il presidente turco non è semplicemente un modernizzatore che punta alla crescita economica e vuole combattere l’arretratezza culturale di molte aree del Paese ma, per giudizio unanime degli studiosi, si sta caratterizzando sempre di più come un autocrate che mira a ricreare quella vasta sfera di influenza che fu dell’Impero ottomano. Erdogan guarda sempre meno all’Europa e ha iniziato a concepirsi come il legittimo erede della tradizione multinazionale ottomana. Una componente centrale di questo sogno di grandezza è la realizzazione di grandi progetti che dimostrino quanto la Turchia sia all’avanguardia e non abbia nulla da invidiare ai Paesi occidentali. Opere colossali, a cui hanno contribuito architetti famosi come Renzo Piano, Zaha Hadid o Frank Gehry, vengono realizzate seguendo i criteri di funzionalità e grandiosità, svolgendo quindi non soltanto una funzione economica ma anche esplicitamente politica.
Ad esempio, nonostante la presenza di altri due aeroporti, il presidente ha incoraggiato la nascita
di un altro aeroporto a Istanbul, destinato a diventare il principale della città e il più grande del mondo. Le piste sono state aperte il 29 ottobre 2018, 95° anniversario della fondazione della repubblica. Poco più di un anno prima, il consorzio che costruisce la struttura ha fatto sfilare1453 camion gialli, per ricordare la data del 1453, l’anno in cui il sultano Maometto II conquistò Costantinopoli. E la cosa non va considerata casuale perché per inaugurare il terzo ponte sul Bosforo, una struttura modernissima realizzata in tempi molto brevi, è stato scelto il 26 agosto 2016, il giorno che segna il passaggio di Costantinopoli sotto il dominio ottomano. Erdogan coltiva però anche il sogno di realizzare il Kanal Istanbul, un secondo canale alternativo al Bosforo, che dovrebbe collegare il Mar Nero e il Mar di Marmara, una zona molto trafficata che consentirebbe alla Turchia di trarre grandi profitti con i pedaggi. Il progetto non è ancora partito, e non dovrebbe farlo neppure a breve, perché presenta grandi difficoltà tecniche, finanziarie e anche politiche visto che violerebbe la Convenzione di Montreux del 1936 che sancisce il libero passaggio delle navi che attraversano il Bosforo, i Dardanelli e il Mar di Marmara.
La rivoluzione urbana del presidente
Come è ben noto, la carriera nazionale di Erdogan inizia nel 1994, come sindaco di Istanbul e mostra subito un piglio riformatore che intende svecchiare e modernizzare il principale centro politico ed economico del Paese. Divenuto poi Primo ministro, impone alle grandi città, ma soprattutto a Istanbul, una politica urbanistica che privilegia la nascita di immensi centri commerciali, collocati in varie aree e con diversi profili, in modo da attirare una clientela specifica. In alleanza con i grandi costruttori, che ne appoggiano le velleità di grandeur traendone lauti profitti, mette in cantiere a spron battuto la realizzazione di megaprogetti e la nascita di quartieri chiusi, cinti da alte mura controllate da guardiani privati, con abitazioni e servizi di qualità e che garantiscono un agiato livello di vita a coloro che possono permetterselo, con scuole, negozi di lusso, cliniche private a portata di mano. I quartieri poveri o quelli che erano stati tirati su abusivamente (un fenomeno diffusissimo nella città sul Bosforo) vengono sottoposti a un “programma di riqualificazione” che realizza edifici moderni e funzionali ma che hanno costi troppo elevati per coloro che si erano costruiti da soli la propria casetta e che sono costretti a spostarsi verso le periferie, recidendo così le proprie radici culturali.
Grazie a questa politica, negli anni 2000 Istanbul ha completato il passaggio da città industriale a città di servizi finanziari, e questo significa che per vincere la concorrenza ha dovuto attirare investitori internazionali, eliminando i controlli legali sul bene pubblico. Questa strategia ha però comportato notevoli costi umani e una radicale trasformazione, non solo del panorama metropolitano ma anche della struttura sociale della città che ha visto l’espulsione della classe operaia e ha accolto un nugolo sempre più folto di operatori finanziari. “In realtà –scrive l’autrice-, la rivoluzione urbana di Recep Tayyip Erdoğan rappresenta una strategia politica ben chiara tesa a sradicare l’identità originaria del luogo, controllare gli spazi di aggregazione urbana e rendere il più possibile İstanbul appetibile agli occhi degli investitori”.
Segnali di resistenza
Nella notte del 27 maggio 2013 le ruspe arrivano a Gezi Park, una delle poche zone verdi sopravvissute a Istanbul, per realizzare un ulteriore “rinnovamento urbanistico” che avrebbe comportato la pedonalizzazione della piazza al posto del parco, la ricostruzione della caserma d’artiglieria voluta dal Sultano Selim III nel 1806 che sarebbe diventato l’ennesimo centro commerciale. Era inoltre prevista la costruzione di una moschea e l’abbattimento del centro culturale Atatürk. Ma stavolta, un piccolo gruppo di attivisti raggiunge il luogo, ostacola i lavori e si accampa all’interno del parco, innescando non solo l’intervento brutale della polizia ma anche una vasta risposta che mobilita migliaia di cittadini che non accettano la distruzione di un parco per far posto a un centro commerciale. Tra i dimostranti ci sono militanti rivoluzionari, ambientalisti che intendono reagire alla sistematica cementificazione della natura, gli ultrà del calcio che protestano contro la violenza della polizia e, addirittura, i musulmani anticapitalisti contrari alle politiche liberiste del governo. Questo movimento, iniziato nelle proteste per Gezi Park, si è poi consolidato nelle elezioni comunali del 2019 che hanno visto il trionfo di un’alleanza di due partiti all’opposizione che ha eletto come sindaco Ekrem İmamoğlu.
Erdogan ha perso le elezioni amministrative anche a Smirne ed Ankara ma, nonostante questo, il suo potere rimane saldo e continua a godere di un notevole sostegno popolare. Con la sua aggressiva politica ha cambiato il volto della nazione, ha svecchiato la macchina burocratica ed è riuscito a inserire nelle posizioni di comando suoi uomini di fiducia, dimostrando di avere indubbie capacità manovriere, come è avvenuto in passato per molti personaggi autoritari. Detto questo, considerare Erdogan come il vero erede di Atatürk, come fa Loccatelli, mi sembra un po’ azzardato. È certamente vero che forse ci vorranno decenni per estirpare le radici del potere del nuovo sultano, ma non dobbiamo dimenticare che il consenso di cui gode è frutto della grande crescita economica del Paese che ha finora chiuso un occhio sulle manie di grandezza del personaggio, sugli scandali finanziari che hanno coinvolto i suoi familiari, sulle rischiose mosse di politica estera, sul saccheggio indiscriminato delle risorse naturali. Le cose sono andate bene fino a che la Turchia è cresciuta del 5 per cento all’anno ma, dal 2018, c’è una crisi che ha visto un notevole aumento dell’inflazione e dell’instabilità finanziaria che potrebbe ripercuotersi sull’ampio sostegno di cui Erdogan ha goduto finora.
Giovanna Loccatelli
L’oro della Turchia
Rosenberg & Sellier, pagg. 192, 14 euro
Galliano Maria Speri