Pellegrino Artusi e la nascita della cucina nazionale italiana (2)

Nel primo articolo abbiamo visto come lo scopo esplicito del libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene fosse quello di creare una comune base gastronomica per rafforzare l’identità di un Paese giovane e ancora poco coeso. Nella redazione del suo manuale, Artusi si è rifatto a una secolare tradizione italiana, iniziata principalmente da medici che, già nel Medioevo, avevano approntato consigli e liste di cibi per coniugare salute e gastronomia. Il ricettario artusiano mette inoltre in grande evidenza i tanti tipi di pasta e gli svariati modi di cucinarla, dando un’importanza fondamentale a un cibo che fino ad allora non era considerato nazionale. A differenza di oggi, nell’Italia settentrionale era molto più comune magiare zuppe o polenta, e questo fa risaltare ancora di più il ruolo di Artusi nel fare della pasta quel simbolo italiano conosciuto da tutti.

Paolo Mantegazza (1831-1910), fisiologo, igienista, neurologo, antropologo e scrittore, è stato un autorevole scienziato italiano. Tra gli allievi del suo laboratorio di Patologia sperimentale a Pavia ci fu Camillo Golgi, premio Nobel per la medicina nel 1906.

La prima edizione del libro lo definiva un “manuale pratico per le famiglie” e indicava in Igiene, Economia e Buon Gusto i tre pilastri che ne erano alla base. Nella prefazione vengono anche date indicazioni precise sui contenuti nutritivi, sulla digeribilità dei cibi e consigli sul periodo migliore nel quale consumarli. Molte delle affermazioni di Artusi sono da ricondursi alla sua ricerca rigorosa, alla sapienza popolare, ma anche ai consigli dell’illustre fisiologo e antropologo Paolo Mantegazza, con cui nel tempo si era consolidata una duratura amicizia. I rapporti tra i due erano molto cordiali, come si evince da una lettera inviata ad Artusi dalla contessa Maria Fantoni, moglie del prof. Mantegazza, dove lo ringrazia sentitamente per la ricetta della gelatina di cotogne, riuscita così buona da essere spedita al figliastro a Buenos Aires.

Il ricettario artusiano cita svariate ricette per cucinare la pasta e ne presenta tantissime varianti regionali per cui, per un quadro esaustivo al massimo, mi trovo a dover riportare alcune precisazioni sulla fantomatica origine cinese della pasta che, purtroppo, capita ancora di vedere sulla stampa nazionale. Mi rendo conto che dover difendere l’origine italiana della pasta suona un po’ ridicolo ma, vi posso assicurare che nell’Italia di oggi avviene di peggio. Sarebbe sufficiente citare la banale argomentazione linguistica secondo la quale non si capisce perché un piatto originario della Cina sia denominato con un termine italiano, da secoli, in tutto il mondo. Mi limito a riferire una serie di dati, animato non da revanscismo nazionalista ma da semplice rispetto per la verità storica.

La pasta è italiana, non cinese

Sembra che la confusione a questo proposito sia iniziata molti secoli fa, a causa di una frase di Marco Polo che è stata interpretata in modo erroneo. Nel Milione, il viaggiatore veneziano dice di aver visitato il Paese di Fanfur dove vede l’albero del sago dal quale i nativi ricavavano farina e con quella fanno “mangiari di pasta assai e buoni”. Il primo editore del libro, il trevigiano Giambattista Ramusio, pubblicando a Venezia il Milione nel Cinquecento, introduce di suo pugno per chiarire meglio una nota in cui afferma che “con quella farina purgata e mondata si fanno lasagne e diverse vivande di pasta, delle quali ne ha mangiate più volte il detto Polo, e ne portò seco alcune a Venezia, qual è come il pane d’orzo e di quel sapore”. Un ricercatore sconsiderato ha male interpretato questo passaggio dando vita alla leggenda della pasta che ha origine in Cina. L’80% degli americani pensa che la pizza sia americana e ritiene pure che sia stata creata a Chicago. Qualche decennio fa la Columbia Encyclopedia riportò inoltre la storia dell’origine cinese della pasta (sarebbe arrivata in Italia dalla Germania dopo un’invasione dei Mongoli). Come si vede siamo nel delirio puro e semplice, anche se queste informazioni fantasiose hanno finalmente perso credibilità.

Le documentazioni storiche dimostrano che la pasta veniva prodotta e consumata in Italia già intorno all’anno Mille, anche se è diventata un vero alimento nazionale soltanto negli ultimi due secoli.

Se invece di prestare ascolto alle leggende metropolitane prendiamo in esami i testi storici, vediamo che la prima citazione della pasta come l’intendiamo oggi (prodotta con semola di grano duro e acqua ed essiccata lungamente) appare in un testo redatto intorno al 1154, noto come il Libro di Ruggero, dello scrittore arabo Abu Abdallah Muhammad bin Idris, noto più concisamente come al-Idrisi, che scrive:

A ponente di Termini (Imerese) vi è l’abitato di Trabìa, sito incantevole, ricco di acque perenni e di mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano spaghetti in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria (si intende tutta la parte terminale della Penisola Puglia inclusa) quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Dalla Sicilia, la pasta si diffonde via mare in Sardegna e Genova, città chiave del commercio nel Mediterraneo. Nel 1279 un cavaliere genovese, Ponzio Bastone, lega per testamento agli eredi, insieme ad altri beni, anche una “bariscella di macaronis”. Non è difficile capire il grande vantaggio di introdurre la pasta nell’alimentazione perché si conserva a lungo ed è facilmente trasportabile. In Italia, almeno a partire dall’XII secolo, si consuma pasta e si conosce anche la pasta ripiena, preparata invece con grano tenero e farcita di carne, verdure o formaggi, come deduciamo dalla Terza novella dell’Ottava giornata del già ricordato Decameron:

In una contrada che si chiama Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce … et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù e chi più ne pigliava più se n’aveva.

Secondo il gastronomo Felice Cunsolo, l’italiano maccheroni deriva dal siciliano “maccari” (schiacciare), derivato a sua volta da “maccu”, vivanda di fave secche sgusciate e frantumate con un cucchiaio di legno in cottura e ridotte a purea. La motivazione tecnica è che per intridere la farina di grano duro con l’acqua bisogna fare uno sforzo notevole. A quei tempi in Sicilia esisteva soltanto il grano duro, nelle varietà “triticum durum”, comune a vari paesi del Mediterraneo, e la “tumminìa”, un grano precoce introdotto forse dai Fenici, che matura in tre mesi. Di questa singolare graminacea seminata a marzo e raccolta a giugno parla Goethe nel suo Viaggio in Italia. Questo dovrebbe bastare per confutare la sciocchezza dell’origine cinese della pasta.

L’alleanza tra medici e cuochi

La Scienza in cucina si inserisce in una tradizione secolare di testi che non sono semplici ricettari

Il Regimen Sanitatis Salernitanum espone le indicazioni della Scuola di Salerno per quanto riguarda le norme igieniche, il cibo, le erbe e le loro indicazioni terapeutiche. Qui è riprodotta la copertina della prima stampa del 1480.

ma un compendio di informazioni e consigli sugli effetti dei cibi e sul modo migliore per cucinarli. La manualistica che tratta di alimenti e salute nasce inizialmente ad opera dei medici ed il trattato fondamentale in questo senso è il Regimen Sanitatis Salernitanum. Il testo è l’opera più nota della celeberrima scuola medica salernitana che alcuni codici dell’846 definiscono già “antica” e che fonde le conoscenze mediche non solo dell’Occidente ma anche dell’Oriente europeo, con cui la vicina Amalfi aveva intensi rapporti. La leggenda vuole che la Scuola sia stata fondata da un latino, da un greco, da un ebreo e da un arabo, ma questo non è molto distante dalla realtà, perché Salerno era un punto di incontro importante delle varie civiltà. Il periodo aureo della Scuola inizia con la conquista normanna per poi decadere nella prima metà del XIII secolo.

Riporto qui sotto alcune delle massime più celebri del Regimen che a molti suoneranno familiari, perché sono ormai entrate nell’uso comune:

Se non hai medici a portata di mano, ti facciano da medici queste tre cose: mente serena, riposo e moderazione nel mangiare.
Non metterti a tavola, se non senti lo stomaco vuoto e libero dal cibo del pasto precedente.
La prima digestione avviene in bocca.
Durante i pasti, bevi poco e spesso.
Se vuoi dormire bene, alla sera mangia poco.
Di primavera fa pasti leggeri. D’estate ricorda che troppo cibo è nocivo. In autunno sta bene attento alla frutta, che non ti faccia male.
D’inverno mangia e bevi quanto vuoi.
Dopo pranzo riposa, dopo cena passeggia.
Se la sera hai bevuto troppo, ribevi vino la mattina e ti farà da medicina.
Se vuoi star sano, lavati spesso le mani.
Perché dovrebbe morire un uomo nel cui orto cresce la salvia?

L’antica sapienza della Scuola salernitana ha sicuramente influenzato il contenuto della Scienza in cucina, anche se probabilmente non per conoscenza diretta ma tramite la mediazione della cultura popolare. Come possiamo vedere dalla breve citazione della prefazione, Artusi riprende letteralmente alcune delle massime del Regimen:

A coloro che hanno conservata ancora l’antica tradizione de’ nostri padri di pranzare a mezzogiorno o al tocco, rammento l’antichissimo adagio: Post prandium stabis et post cenam ambulabis; a tutti poi, che la prima digestione si fa in bocca, quindi non si potrebbe mai abbastanza raccomandare la conservazione dei denti, per triturare e macinare convenientemente i cibi, che con l’aiuto della saliva, si digeriscono assai meglio di quelli tritati e pestati in cucina.

(continua)

Galliano Maria Speri