Nel De Oratore di Marco Tullio Cicerone, all’interno di una frase più ampia, c’è una notissima locuzione secondo la quale la storia è maestra di vita per gli uomini (Historia magistra vitae). A giudicare da quanto sta accadendo, con il rombo dei cannoni che è tornato a risuonare lugubre nelle civilissime terre d’Europa, col suo seguito atroce di vittime, distruzioni, profughi, sangue, mutilazioni, disperazione e odio, gli uomini non sono riusciti a far tesoro di questo sereno insegnamento che ci arriva dalla classicità. Purtroppo, continuano a tendere i muscoli, affilare le spade, e lanciano brutali invasioni militari che distruggono case, campi, strade, ponti, scuole, ospedali. Sembra che gli uomini non abbiano imparato nulla dalla storia. Ma le donne? Le madri dei russi invasori e degli ucraini che, con coraggio inatteso, difendono quella che percepiscono come loro patria, provano lo stesso terribile dolore contro natura all’annuncio della morte dei loro figli. Noi tutti siamo “nati da donna” e siamo diventati umani succhiando quello che, nel suo Macbeth, Shakespeare chiama “milk of human kindness”. Il torturatore e la sua vittima hanno entrambi avuto una madre.
La situazione militare sul campo di battaglia ucraino rimane ancora totalmente aperta, non esiste nessuna prospettiva realistica per aprire veri negoziati che possano portare a un cessate il fuoco e a un successivo accordo. Ogni alba annuncia nuove vittime innocenti e nuove sofferenze, senza che i generali al comando dei due schieramenti mostrino umana pietà per il dolore causato. Non possiamo certo mettere sullo stesso piano etico il testosteronico zar invasore e il multiforme presidente invaso ma, entrambi, possono imparare molto dalla lezione che due donne coraggiose hanno impartito a noi tutti durante la Via Crucis che si è tenuta venerdì 15 aprile al Colosseo, alla presenza di Papa Francesco. Irina è ucraina e infermiera del Centro di Cure Palliative del Campus Bio-Medico di Roma. Albina è russa e frequenta il terzo anno del corso di laurea in Scienze infermieristiche presso lo stesso Policlinico universitario. Dopo l’invasione dell’Ucraina, Albina temeva di essere considerata una nemica che sarebbe stata guardata con rancore e ostilità, in quanto russa. Irina, nonostante il cuore spezzato per la devastazione che il suo Paese sta subendo, non ha visto in lei la nemica da odiare, ma la collega da sostenere.
Qualcuno potrà forse osservare che gli operatori del mondo sanitario sono abituati a lavorare a contatto diretto con la malattia e il dolore, sono quindi più pronti a mostrare empatia verso l’altro, come necessario corredo professionale, ma qui c’è qualcosa di più. Con molta naturalezza, le due infermiere, intervistate a marzo da Valentina Bisti per il TG1, hanno dichiarato che il loro legame di amicizia è diventato ancora più solido e hanno parlato di “condivisione della sofferenza dei due popoli”. Per questa ragione entrambe, per decisione di Papa Francesco, sono state invitate a portare congiuntamente la croce durante la Via Crucis e non in un momento qualsiasi ma nella XIII stazione, quella più straziante, in cui si ricorda la deposizione di Cristo dalla croce e la consegna del suo corpo esangue a sua madre Maria. Incredibilmente, una proposta certamente in controtendenza nel momento di isteria bellica attuale ma perfettamente coerente con le celebrazioni pasquali, ha sollevato dubbi e proteste.
L’ambasciata ucraina presso la Santa Sede ha chiesto al Vaticano di ripensare la scelta dichiarando in un tweet di capire e condividere “la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità sull’idea di mettere insieme le donne ucraine e russe nel portare la Croce durante la Via Crucis di venerdì al Colosseo”. Se, in linea di principio, si possono comprendere le ragioni dell’ambasciatore di un Paese che sta combattendo contro un’invasione militare, lascia francamente di stucco la posizione dell’arcivescovo greco-cattolico Sviatoslav Shevchuck, che ha espresso riserve verso questa iniziativa. Per protesta, alcuni media cattolici ucraini hanno addirittura deciso di non trasmettere la diretta della Via Crucis, mostrando di avere scarsa dimestichezza con lo spirito evangelico.
Questo non è certo il luogo per analizzare ragioni e torti, né per formulare strategie per arrivare a una soluzione giusta. È chiaro però che un conflitto che brucia nel cuore dell’Europa rappresenta un pericolo enorme per il futuro di un continente che, fino a pochissimo tempo fa, si vantava orgogliosamente di aver superato l’uso delle armi come mezzo di risoluzione delle controversie. Il rombo dei cannoni e i gemiti delle vittime ci ricordano che la realtà è diversa. In un contesto così desolante, le delicate mani femminili, che hanno portato congiuntamente la croce il venerdì santo, suggeriscono che le stesse mani che hanno accudito e accarezzato chiunque venga alla luce, maschio o femmina, oppresso o oppressore, rappresentano anche un segno di bellezza e speranza, una specie di via femminile alla pace. Nel Mercante di Venezia, William Shakespeare affida al personaggio di Porzia, esempio mirabile di come le donne possano padroneggiare perfettamente l’arte del buon governo, una difesa della clemenza, qualità indispensabile per qualunque governante e al di sopra del potere degli scettri. Porzia dice che la clemenza:
“Ha il suo trono nel cuore dei re,
è un attributo di Dio stesso. Il potere terreno
appare allora più simile a quello divino
quando la clemenza addolcisce la giustizia”.
Parole pronunciate da una donna saggia su cui dovrebbe meditare lo zar Putin quando ordina di mettere a ferro e fuoco Mariupol (Città di Maria), o di distruggere scuole e ospedali. Forse, potrebbe trovare illuminante una discussione franca con le madri di quei giovani soldati russi che lui ha mandato a morire a migliaia sulle fertili terre d’Ucraina. Se a capo del governo russo e di quello ucraino ci fossero state due donne amorevoli che conoscono il significato profondo della clemenza, sarebbero state in grado di far tacere i tamburi di guerra?
Galliano Maria Speri