Oltre ad essere un gesto criminale, l’invasione dell’Ucraina è stata un drammatico errore strategico che potrebbe segnare l’inizio del declino del nuovo zar. Multinazionali e imprese occidentali stanno abbandonando la Russia ma, ancora più grave, è l’emigrazione del fior fiore dei tecnici informatici che potrebbe infliggere un colpo mortale alla parte più progredita dell’economia.
La maggior parte degli analisti si concentra, giustamente, sull’evoluzione della situazione militare sul campo, trascurando però un elemento che, sul lungo termine, può avere un effetto devastante sull’intera strategia espansiva di Putin. È l’arretrata economia russa ad essere, da sempre, il vero tallone d’Achille, soprattutto in questa fase in cui le sanzioni internazionali stanno colpendo molto duramente. Diversi commentatori hanno affermato che l’invasione dell’Ucraina viene finanziata dai soldi occidentali che affluiscono nelle casse russe, in cambio dell’esportazione di gas e petrolio. In realtà, la liquidità che arriva alla Gazprombank, una delle pochissime banche non sanzionate, può essere utilizzata solo per effettuare pagamenti con controparti russe o straniere non sanzionate. Anche le operazioni di triangolazione con banche non russe appaiono complicate perché espongono tali banche alle ritorsioni americane ed europee. In pratica, il Cremlino vede arrivare decine di miliardi di euro e dollari che però rimangono congelati, almeno fino alla firma di un accordo di pace e alla sospensione delle sanzioni.
Si salvi chi può
Se è possibile ipotizzare che, sul lungo termine, l’export energetico russo, la vera spina dorsale dell’economia, si sposti progressivamente dall’Europa verso l’Asia, c’è un fattore che non può essere sostituito e che ha bisogno di decenni per dispiegare le proprie potenzialità: si tratta dell’intellighenzia che fa funzionare la parte più dinamica e avanzata dell’economia russa. La guerra non ha costretto a fuggire soltanto cinque milioni di ucraini, ma ha indotto all’emigrazione centinaia di migliaia di imprenditori, professionisti e, soprattutto, tecnici informatici, la chiave dell’industria del futuro. Già ai primi di marzo, il Financial Times riportava le parole del manager Ilya Krasilshchik che, mentre saliva sul volo per Dubai, dichiarava: “Il Paese in cui vivevamo è stato distrutto, sta precipitando nell’abisso. Che futuro ci può essere in uno stato dove il potere è stato preso dai servizi segreti? Nessuno”. Elina Ribakova, vice capo economista dell’Istituto di finanza internazionale (Iif), è ancora più esplicita quando spiega che “l’impatto a lungo termine delle sanzioni toglie ogni speranza di crescita o progresso. Ci saranno forti limitazioni alle capacità della Russia di importare tecnologie, e la fuga di cervelli priverà il Paese del capitale umano”. Il quotidiano londinese fornisce poi un ampio resoconto dei voli pieni verso Israele, Turchia, Armenia, Azerbaigian, Georgia.
Da allora, la situazione è ulteriormente peggiorata. Konstantin Sonin, un economista di origini russe che insegna all’Università di Chicago, ha calcolato in circa 200mila le persone che sono scappate dalla Russia nei primi dieci giorni di guerra. “È un secolo che non si vedeva un esodo così tragico”, ha scritto in un tweet, riferendosi alla fuga di circa cinque milioni di persone dopo la Rivoluzione del 1917. OK Russians, una Ong russa che si occupa di migrazione, parla indicativamente di 300mila persone che hanno lasciato il Paese e calcola che circa un terzo di questi sia composto da tecnici informatici. Molti emigrati sono attivisti che Putin vede partire con grande gioia, ma la maggioranza sono tecnici specializzati e anche molti imprenditori che temono l’isolamento e il clima autoritario che ostacola le attività economiche.
Mitya Aleshkovskij, co-fondatore di OK Russians, dice: “Le persone migliori se ne stanno andando. I tecnici superspecializzati, quelli con un’educazione di livello superiore e i percettori di alti stipendi stanno scappando”. Nel suo resoconto alla Duma, la Camera bassa di Mosca, l’Associazione russa per le comunicazioni elettroniche ha affermato che sono già partiti tra i 50 e i 70mila operatori del settore, mentre ci sono circa 100mila tecnici che si apprestano a fare le valigie. Ma questa nuova ondata non è che l’ultimo sviluppo di una tendenza iniziata molto tempo fa. A ottobre dello scorso anno Takie Dela, un periodico russo in rete che si occupa di questioni sociali, ha ipotizzato che, dal 2000 al 2020 (periodo che corrisponde alla presa di potere di Putin), sono emigrati tra i quattro e i cinque milioni di russi. Mentre nel primo periodo il flusso era diretto principalmente verso l’Europa e gli Stati Uniti, dopo il 2014, anno dell’annessione dell’Ucraina, si è reindirizzato anche verso gli stati ex sovietici.
Strategia fallimentare
Nello scorso mese di aprile si è poi verificato un intenso flusso verso la Serbia, tradizionale alleata
della Russia con cui ha una grande affinità culturale, non richiede visto di ingresso ma, soprattutto, è facilmente raggiungibile, grazie a voli verso Mosca e San Pietroburgo che non sono mai stati sospesi. Secondo Stefano Giantin, corrispondente da Belgrado per diversi quotidiani italiani, sono circa 20-30mila i russi che sono emigrati in Serbia nelle ultime settimane, tanto che capita molto spesso di sentir parlare russo nelle strade e nei ristoranti della capitale serba. E non ci sono soltanto imprenditori che continuano a operare da Belgrado, ma anche famiglie di tecnici informatici con bambini piccoli che hanno deciso di ricostruirsi una vita lontani dalla madrepatria. L’entità del fenomeno è indicata anche dall’aumento degli affitti, dovuto all’incremento della domanda. Per capire meglio quale sarà l’impatto di questo fenomeno sull’economia russa, basta considerare le dichiarazioni del Ministero dello sviluppo digitale russo che, nel 2021, aveva calcolato il fabbisogno di tecnici informatici in una cifra che oscillava tra 500mila e un milione. Lo stesso documento calcolava in due milioni i tecnici che sarebbero stati necessari nel 2027.
Nel disperato tentativo di fermare l’esodo, il Cremlino offre alle imprese informatiche una semplificazione delle regolamentazioni, una riduzione delle tasse, oltre a sussidi per gli affitti e l’esenzione per tre anni dalla dichiarazione dei redditi, a cui si aggiunge la garanzia che nessun tecnico sarà chiamato a prestare il servizio militare. La maggioranza dei sondaggi indica che l’80% dei russi appoggia l’invasione dell’Ucraina, ma questo non vale certo per l’elite intellettuale ed economica, che non intende avvalersi delle facilitazioni del governo e ha scelto di separare il proprio destino da quello di Putin. Secondo Mikhail Mizhisnkij, titolare della Relocade, una struttura con sede a Londra nata per facilitare la ricollocazione delle imprese tecnologiche, i suoi clienti sono aumentati di venti volte. Alcuni imprenditori russi spostano cento o duecento dipendenti alla volta, “non abbiamo mai visto nulla di simile”, dice. Per capire meglio il clima che si respira in Russia basta leggere quello che ha scritto a marzo il giornalista Boris Grozoskij sulla sua pagina Facebook: “Nei giorni scorsi, molti russi sono arrivati in Georgia, ma non siamo turisti, siamo rifugiati. Non scappiamo da proiettili, bombe e missili ma dalla galera. Se scrivessi in Russia quello che sto scrivendo ora sarei certamente condannato a 15 o 20 anni di prigione”.
Come sanno bene tutti gli analisti competenti, la Russia è un colosso dai piedi d’argilla che non possiede i mezzi per sostenere la sua aggressiva politica globale in Medio Oriente, in Africa, nel Mediterraneo, visto anche che i prezzi degli idrocarburi non rimarranno per sempre sui valori massimi. La dissennata strategia di Putin sta minando le basi della parte moderna dell’economia russa che incontrerà sempre maggiori difficoltà quando ampi settori dell’industria non potranno disporre dei pezzi di ricambio provenienti da imprese occidentali. Queste sono le valutazioni da cui si dovrebbe partire per elaborare una strategia per porre fine alla guerra, offrendo al Cremlino una valida via d’uscita che abbia come baricentro la ridiscussione della sicurezza europea e la prospettiva della ricostruzione dell’Ucraina e dello sviluppo industriale della Russia che ne sancisca il radicamento in Europa. Gli Stati Uniti, mai così deboli, divisi e indecisi, non hanno l’intenzione e, probabilmente, neppure le capacità per mettere a punto un piano così ambizioso. Il presidente francese Macron e il premier italiano Draghi hanno flebilmente levato la propria voce in favore della ricerca della pace, senza nessun effetto finora. Quasi tutti i politici dichiarano che bisogna farla finita con il principio dell’unanimità e che l’Europa deva cambiare registro. Ebbene, il momento delle dichiarazioni è finito da un pezzo ed è arrivato il momento di prendere decisioni. Forse coloro che reggono le sorti del nostro continente potrebbero trarre ispirazione dalle parole del grande poeta tedesco Johan Wolfgang Goethe quando scriveva: “Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora”.
Galliano Maria Speri