L’attacco di Putin a Kyiv ha condotto a una ridefinizione della situazione strategica a livello globale e alla drastica riorganizzazione della NATO in cui sono entrate Svezia e Finlandia. Se la politica imperiale di Mosca viene oggi percepita come una minaccia diretta agli USA e all’Europa, è il riarmo accelerato di Pechino e la sua intenzione di inglobare Taiwan che potrebbero accendere la miccia di un nuovo scontro con l’Occidente.
Prima del 24 febbraio 2022 nessuno, nemmeno gli ucraini, credevano che Putin avrebbe dato l’ordine di invadere l’Ucraina. Invece, è successo e il conflitto è destinato a protrarsi ancora a lungo poiché non si intravedono elementi che possano portare le forze in campo al tavolo delle trattative. Dopo aver dato prova di inefficienza e disorganizzazione, l’esercito russo ha mostrato di voler raggiungere i propri obiettivi con la semplice forza bruta, ricorrendo anche a massicci bombardamenti di strutture civili e attacchi indiscriminati contro centri residenziali molto distanti dalle zone di combattimento, commettendo una serie interminabile di feroci crimini di guerra.
Il presidente russo ha messo in mostra spietatezza e cinismo, ma non è su questa base che si possono lanciare allarmi sul rischio di attacco alla Polonia e ai Paesi baltici. In primo luogo, Mosca sa benissimo cosa significhi uno scontro diretto con un Paese NATO e, inoltre, la sua economia (nonostante l’esplosione delle entrate energetiche) non le consente di sostenere un conflitto protratto con la maggiore potenza economica e militare del mondo. È perfettamente comprensibile che tutte le attenzioni degli europei siano puntate sulla guerra in atto, ma non dovremmo dimenticare che la conquista di Taiwan da parte di Pechino è solo questione di tempo perché questa scelta è determinata sia da questioni storiche ma, soprattutto, geografiche. E se l’analisi della storia può essere distorta da visioni ideologiche questo è molto più difficile con la geografia.
Si torna alle due Cine?
Nel mondo, l’economia del dragone è la seconda alle spalle degli Stati Uniti e, nonostante la crisi legata alla pandemia, prospera stabilmente da decenni, anche se a tassi decrescenti. Questo ha consentito alla dirigenza del Partito comunista di programmare una massiccia campagna di riarmo. Secondo i dati del Congresso nazionale del popolo (il parlamento cinese) nel 2022 il bilancio della difesa ammonterà a 229,47 miliardi di dollari (come termine di confronto nel 2021 gli USA hanno speso invece 801 miliardi di dollari). L’anno scorso le spese militari erano state di 209 miliardi di dollari, mentre nel 2020 avevano raggiunto la cifra di 178 miliardi di dollari. A coronamento di questa intensa campagna di investimenti, il 17 aprile 2022 è stata varata la Fujian, una portaerei da 80mila tonnellate e di concezione interamente nazionale, dotata di un sistema di decollo dei velivoli a catapulta elettromagnetica, analogo a quello utilizzato sulle nuove portaerei statunitensi classe Ford. Non è certo casuale che questa nuova ammiraglia della flotta prenda il nome dalla provincia cinese situata di fronte all’isola di Taiwan, come se dovesse indicare la sua futura missione.
Per Pechino la conquista dell’isola segnerebbe la rivincita sul “secolo delle umiliazioni”, il periodo
che va dalle Guerre dell’oppio fino all’invasione giapponese, il completamento del disegno di riunificazione nazionale ma, soprattutto, sancirebbe il ruolo della Cina come potenza globale destinata a scalzare gli Stati Uniti dal loro piedistallo. Se a questo aggiungiamo che l’isola ribelle sforna oltre il 60% dei circuiti integrati più avanzati del mondo che riforniscono le imprese americane (incluse quelle della difesa), capiamo meglio la sua importanza strategica. Per le stesse ragioni, Taiwan rappresenta per Washington una inderogabile linea rossa necessaria alla sicurezza dell’alleato giapponese e strumento indispensabile di contenimento di un pericoloso concorrente. Nel pieno della Guerra fredda e in funzione antisovietica, l’amministrazione americana decise di riconoscere la Cina comunista, ruppe formalmente le relazioni diplomatiche con Taipei ed escluse il governo nazionalista dal seggio all’ONU. Nel 1971 divenne operativa la politica di “una sola Cina”, con cui Washington fingeva di accettare come legittima la sola Repubblica Popolare, certa che Pechino fosse troppo debole militarmente per tentare un’invasione. La situazione cambiò drasticamente col crollo dell’URSS e nel 1995, per protestare contro la visita del presidente taiwanese Lee Teng-hui alla Cornell University, la Cina lanciò dei missili contro l’isola. Gli Stati Uniti reagirono inviando nello stretto le portaerei USS Nimitz e USS Independence.
A Taiwan si sono sempre confrontate due forze che vedevano con minore o maggiore simpatia il ricongiungimento con la Cina continentale. Un primo segnale si ebbe nel 2001, quando il Kuomintang, il partito più favorevole a Pechino, perse la maggioranza dei voti. Ma la vera svolta avvenne nel 2016, con l’elezione di Tsai Ing-wen, del Partito progressista democratico. Entrata in carica, la nuova presidente si rifiutò di riconoscere il principio di “una sola Cina” e iniziò una campagna per riformulare i manuali scolastici e rendere meno sinocentrica l’economia e la società. Mentre nel 1992 solo il 17,6% della popolazione si definiva taiwanese, un sondaggio della National Chengchi University del 2021 mostra come questa percentuale sia salita al 63,3%. Un fattore che ha certamente influenzato questa tendenza è stata la brutale repressione di Pechino delle forze democratiche di Hong Kong. Dal 1997 l’ex colonia britannica di Hong Kong è tornata sotto la sovranità cinese con lo status di Regione amministrativa speciale che avrebbe dovuto mantenere le proprie tradizionali prerogative democratiche. Ma, a partire dal 2019, la Cina ha progressivamente eliminato ogni forza di opposizione imponendo il dominio assoluto del Partito comunista. Nonostante la firma di un trattato internazionale, Pechino ha mostrato come la linea di “un Paese due sistemi” fosse pura propaganda comunista e questo ha fatto capire ai taiwanesi quale sarebbe il destino delle loro istituzioni democratiche se l’isola tornasse sotto il dominio della Cina.
Di fronte al risorgente patriottismo, Pechino ha intensificato il sorvolo dello spazio aereo taiwanese e non perde occasione per attaccare i politici più nazionalisti, arrivando a minacciare che una dichiarazione di indipendenza sarebbe considerata come un casus belli che scatenerebbe un’invasione immediata. Da qualche anno, gli Stati Uniti hanno segnalato un cambiamento di strategia, evidenziato dalla telefonata che il neoeletto Donald Trump fece alla presidente Tsai Ing-wen nel 2016. Alla sua inaugurazione, il presidente Biden ha accolto Hsiao Bi-khim, la rappresentante taiwanese a Washington. Nell’ultimo periodo si sono anche intensificate le visite di politici e alti funzionari statunitensi, come il ministro per la Salute, Alex Azar, l’ambasciatrice presso le Nazioni Unite, Kelly Kraft, oltre a una lunga serie di delegazioni parlamentari, come quella arrivata a Taipei il 22 maggio 2022 e guidata dal senatore Tammy Duckworth. Tutti segnali che mostrano come la politica americana di “una sola Cina” sia profondamente mutata. Ricordiamo che nel 2007 un documento del Congresso stabiliva che Washington riconosce come Cina entrambi i Paesi che si affacciano sullo stretto di Formosa e che ritiene “disputato lo status di Taiwan”.
La prima catena di isole
Secondo Pechino, gli indigeni taiwanesi sono discendenti del popolo yue della Cina meridionale e che già nel periodo dei Tre regni (220-265) il sovrano Sun Quan avesse inviato sull’isola soldati e funzionari. Quello che è certo è che furono i portoghesi nel 1544 a colonizzare l’isola che chiamarono Ilha formosa cioè “Isola bella”. Dal 1624 Formosa venne contesa da olandesi e spagnoli, senza nessun intervento da parte dell’Impero del Centro, interessato soprattutto alla preservazione della sua stabilità interna. Nel 1662, in seguito allo scontro tra la soccombente dinastia Ming e quella Qing, il comandante Zheng Chenggong, fedele ai Ming, sconfisse gli olandesi e occupò l’isola. Soltanto nel 1683 l’imperatore Kangxi riprese il controllo di Taiwan e lo mantenne fino al 1895, quando il Trattato di Shimonoseki, pose fine alla guerra sino-giapponese e obbligò i Quin a cedere al Giappone Taiwan, le isole Pescadores, la penisola del Liaodong e l’archipelago Senkaku/Diaoyu. Nel 1949 l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti di Mao, si rifugiò sull’isola creando una repubblica indipendente. Come si vede, la dominazione cinese è soltanto una parentesi nella lunga storia di Taiwan che ha il pieno diritto di rivendicare la sua esistenza come entità autonoma.
Se la cavalcata storica è importante per focalizzare il retroterra strategico, è la geografia che rappresenta la vera chiave di lettura della questione Taiwan. L’isola costituisce la pietra di volta di una lunga catena che parte dal Giappone e si estende verso sud tramite numerose isole sotto la sovranità giapponese, la cui più nota è Okinawa, scavalca Taiwan e prosegue con le isole Batan (Filippine). Inoltre, l’isola, che nel punto più vicino dista 143 chilometri dalla costa cinese, non è solo il maggior ostacolo al libero accesso della Cina al mare aperto, ma possiede anche le isole Matsu, Quemoy e Pescadores che sono a ridosso della Cina continentale e danno a Taiwan il controllo dello stretto omonimo. Occupando Taiwan Pechino avrebbe libero accesso ai mari senza essere costretta a subire il contenimento degli Stati Uniti e dei suoi alleati nell’area. Si comprende benissimo perché un gigante economico come la Cina, la cui forza è basata principalmente sulla sua capacità di esportazione, veda il controllo dell’isola bella come vitale per il suo futuro come nazione e come superpotenza mondiale. La domanda quindi non è se Pechino invaderà Taiwan, ma solo quando riterrà che la situazione internazionale sia favorevole a questa mossa. Noi europei, che ci eravamo illusi di aver conquistato la pace perpetua grazie allo sviluppo economico, dovremmo ricominciare a studiare attentamente la geografia, purtroppo colpevolmente espulsa dal nostro ordine di studi superiori.
Galliano Maria Speri