Il 15 agosto del 2021 Kabul ricadde nelle mani dei Talebani e le donne afghane, nuovamente costrette a indossare il burqa, lanciavano un terribile avvertimento: l’idea del progresso e della difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle donne, può essere rimessa in discussione. In Iran sono stati uccisi decine di dimostranti che protestavano per la morte di Mahsa Amini, una ventiduenne curda massacrata di botte dalla polizia religiosa perché “non indossava correttamente il velo”. Le donne, il loro diritto allo studio e alla libertà, sono ancora una volta nel mirino ma, senza di loro, né il civile Occidente, né i Paesi in via di sviluppo avranno un futuro.
La teocrazia fanatica e oscurantista che domina l’Iran dal 1979 impone alle donne di indossare l’hijab, un velo che deve coprire interamente il capo. Non si tratta di un invito teorico perché viene fatto rispettare, con metodi brutali, dal Gasht-e Ershad, la “polizia della moralità” che ha il compito di arrestare le persone che violino le regole dell’abbigliamento in Iran. Ma, in pratica, il principale bersaglio di questa struttura repressiva sono le donne che non possono vestire secondo i gusti e le inclinazioni personali e devono coprirsi scrupolosamente il capo. Il 13 settembre 2022 Mahsa Amini, una ragazza residente nel Kurdistan iraniano, si reca in vacanza a Tehran con la propria famiglia. Lo stesso giorno, mentre era in compagnia del fratello, viene arrestata dalla polizia della moralità e condotta in un centro di detenzione. Da qui è trasportata verso un ospedale di Tehran e il 16 settembre, dopo due giorni di coma, spira in seguito alle ferite riportate.
“Donne, vita, libertà”
La versione ufficiale parla di attacco cardiaco ma alcuni medici dell’ospedale in cui era stata ricoverata avevano notato sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi, segni di un probabile trauma cerebrale. Mahsa è stata brutalmente picchiata e uccisa perché una ciocca dei suoi capelli fuoriusciva dall’hijab e questa banale infrazione, nell’Iran degli ayatollah, può trasformarsi in una sentenza di morte. Il caso ha scatenato durissime proteste in tutto il Paese e decine di donne, in solidarietà per Mahsa, si sono riprese e hanno postato immagini in cui si tagliavano i capelli o bruciavano il velo, simbolo di oppressione. Le manifestazioni sono ancora in corso, al momento di scrivere hanno causato più di 80 vittime, centinaia di feriti e portato a circa 1.200 arresti. Le donne, affiancate dagli uomini, sono scese coraggiosamente in strada al grido di “Donne, vita, libertà”, uno slogan che enuncia gli ideali che spingono i dimostranti, pronti a rischiare la loro vita, ma sottolinea la centralità delle donne in questa richiesta di rinnovamento e difesa dei diritti umani.
Durante le proteste è stata uccisa nella città di Karaj anche Hadis Najafi, una ragazza di vent’anni che era stata ripresa mentre dimostrava senza velo e con una vistosa coda bionda. È stata raggiunta da sei proiettili al petto, al collo e al cuore, diventando così un altro simbolo dopo Mahsa. Il velo è tornato a far parlare di sé anche per la mancata intervista che il presidente iraniano Ebrahim Raisi, a New York per la recente sessione dell’ONU, avrebbe dovuto concedere a Christiane Amanpour, la nota giornalista della CNN cresciuta fino all’età di 11 anni a Tehran, città dove era nato suo padre. La giornalista ha riferito su Twitter che quaranta minuti dopo l’orario concordato per l’intervista è stata raggiunta da un assistente del presidente iraniano che le aveva chiesto di indossare il velo per “una questione di rispetto”. Amanpour ha rifiutato. “Siamo a New York –ha scritto-, qui non c’è legge o tradizione sul velo. Ho fatto notare che nessun presidente iraniano ha mai fatto questa richiesta quando li ho intervistati fuori dall’Iran”. Di fronte alle insistenze dell’assistente la giornalista ha, giustamente, rinunciato all’intervista.
In Occidente si tende a dimenticare troppo facilmente che in alcune aree geografiche le donne rischiano la vita per diritti fondamentali che noi riteniamo assodati da più di un secolo, come ad esempio il diritto all’istruzione o quello a sposare chi si desidera. La pakistana Malala Yusafzai, la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace, è un esempio eclatante di quali rischi corrano le bambine che desiderano ricevere un’istruzione. Divenuta celebre già a 13 anni, grazie a un blog che denunciava il regime dei talebani pakistani che si opponevano ai diritti delle donne e all’istruzione per le bambine, il 9 ottobre 2012 fu gravemente ferita alla testa da fanatici islamisti mentre tornava a casa su uno scuolabus. L’attentato fu rivendicato da Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani, che la attaccò come “simbolo degli infedeli e dell’oscenità”. Sopravvissuta alle gravissime ferite riportate, il 12 luglio del 2013, Malala parlò all’ONU indossando lo scialle che era appartenuto a Benazir Bhutto, la premier pakistana assassinata nel 2007, lanciando un appello per l’istruzione delle bambine e dei bambini del mondo.
Come vanno le cose da noi?
Tutti i Paesi occidentali riconoscono parità di diritti alle donne e condannano i matrimoni precoci a cui sono costrette molte bambine in Oriente o in Africa e offrono un percorso educativo a tutti i bambini, sia maschi che femmine. La stessa riprovazione viene rivolta a pratiche crudeli e inumane come le mutilazioni genitali femminili che, in nazioni come la Somalia, colpiscono un numero elevatissimo di bambine. Eppure, è forse nell’Occidente civilizzato che è partito un attacco subdolo e pericolosissimo contro le donne, tutte le donne, non quelle che non portano il velo o che si vestono in modo disinibito. Secondo la teoria del gender, affermatasi progressivamente nelle università degli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, il sesso biologico non esiste e il considerarsi femmina o maschio dipende soltanto da una scelta soggettiva che prescinde dalla biologia.
Esiste in tutto il mondo una piccola minoranza di persone che, durante il loro sviluppo, non si riconoscono più nel sesso di nascita e intraprendono un percorso medico e psicologico per corrispondere al sesso con cui si identificano. Queste persone vanno rispettate, tutelate e devono godere di tutti i diritti che spettano a qualunque altro cittadino. Ma quando si afferma che il sesso biologico non esiste e che tutti possono diventare delle donne si va incontro a contraddizioni molto pericolose. Che dire, infatti, della neozelandese Laurel Hubbard, prima atleta transessuale a partecipare ai Giochi Olimpici di Tokyo a cui si è qualificata sollevando 285 chili nella tappa della Coppa del mondo svoltasi a Roma nel 2020? Prima del 2015 le atlete transgender non erano ammesse ai giochi ma poi il Comitato olimpico internazionale ha modificato il regolamento. A nessuno sfugge il fatto che una massiccia presenza di transessuali negli sport femminili altererebbe in profondità le varie discipline, anche perché, nel caso inverso, una donna diventata uomo non farebbe troppa paura a pugili, lottatori, lanciatori di peso e via dicendo.
Nel 2020, quando J.K. Rawling, scrittrice famosissima ma anche femminista, liberal, collaboratrice
di Amnesty International e anti Brexit, osò scrivere che il dato biologico esiste e che i cromosomi XX e XY sono una cosa reale ricevette minacce di morte e fu subissata di attacchi che la definivano “transfobica” e “strega nazista”. Ma l’autrice di Harry Potter non aveva detto nulla di scandaloso e si era limitata a notare un fatto biologico, scientifico e sociale. Aveva semplicemente affermato che il “sesso è reale” e che gli uomini sono uomini e le donne sono donne. Evidentemente, i sostenitori della “giustizia sociale” e della “intersezionalità” hanno un’idea peculiare della libertà di pensiero e del diritto di esprimere le proprie opinioni, qualunque esse siano.
Il movimento femminista è andato incontro a una radicalizzazione sempre maggiore e le istanze classiche di uguali diritti, servizi sociali che consentissero alle donne di lavorare, parità di stipendio e di accesso alle cariche dirigenziali sono state annacquate in una serie di rivendicazioni di minoranze sessuali riassunte nella sigla LGBTQA+. Il diritto dei transessuali a non essere discriminati viene di fatto equiparato a quello delle donne a non essere licenziate se rimangono incinte. In linea teorica è giusto, ma non possiamo dimenticare che i transessuali sono una piccolissima minoranza le donne, invece, rappresentano metà della società. Basta aprire un qualunque giornale per trovare interviste a cantanti o attori famosi che si dichiarano gender fluid, mentre le difficoltà di una mamma disperata perché non riesce a trovare un posto all’asilo per il figlio risultano molto meno glamour. Purtroppo, è un dato di fatto che i diritti delle donne in Occidente abbiano da tempo subìto una battuta d’arresto e che, dopo un iniziale progresso, la società è rimasta sostanzialmente maschilista e ci sono pochissime donne in posizioni apicali. Questo è particolarmente evidente in Italia.
Un 8 marzo particolare a Roma
Un episodio locale, avvenuto il 7 marzo dello scorso anno nel quartiere romano di Montesacro, è un esempio di come l’estremismo radicale non sia la strategia migliore per difendere i diritti delle donne ma, al contrario, possa essere usato in modo strumentale contro l’emancipazione femminile. Un progetto che prevedeva la pedonalizzazione dell’area di Piazza Sempione, uno snodo trafficatissimo nella zona Nord di Roma, ha suscitato un aspro dibattito perché implicava lo spostamento di una statua della Madonna a cui il parroco della chiesa che si affaccia sulla piazza si è opposto.
Per tutta risposta, visto l’approssimarsi della Festa della donna, alcuni movimenti femministi, insieme ai collettivi transfemministi e ai centri antiviolenza romani hanno portato in processione un’enorme vulva di carta crespa, sormontata da una coroncina come se si trattasse di una statua della Madonna. Il portale DinamoPress, che ha intitolato il servizio “Una vagina sacra contro l’oscurantismo clericale”, ha riferito delle tante singolarità “che hanno animato l’iniziativa ribattezzata ‘frocessione’, all’interno del count down della mobilitazione dell’8 marzo, giorno di sciopero transfemminista, di lotta e di astensione dal lavoro produttivo e riproduttivo”.
Nessun giornale, a parte quelli di destra, ha ritenuto importante soffermarsi ad analizzare l’evento, nonostante che nella Costituzione italiana sia specificato che nessuno possa essere discriminato o vilipeso a causa della propria religione. Stigmatizzare un episodio di quel tipo non dovrebbe essere né di destra né di sinistra ma riguarda semplicemente la dignità di tutte le donne. Uno dei pochissimi politici che ha preso posizione su quanto avvenuto è stata Giorgia Meloni che si è chiesta se “qualcuno si sente rappresentato da questi personaggi che fanno della blasfemia e del cattivo gusto una bandiera”. A distanza di un anno e mezzo, Giorgia Meloni si trova a guidare il maggior partito italiano e si appresta a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, prima donna a ricoprire tale ruolo. Bisognerebbe chiedersi perché i partiti “progressisti”, che si mobilitano costantemente in favore dei “diritti civili”, non abbiano fatto della questione femminile l’asse portante della loro politica e non abbiano una dirigenza composta per metà da donne.
È certamente un’ironia della storia che un partito di estrema destra come Fratelli d’Italia, maschilista e autoritario, sia guidato da una donna, come avviene anche in Francia con Marine Le Pen. Sembrerebbe che per “diritti civili” i partiti “progressisti” intendano però solo i diritti della comunità LGBTQA+ che vanno certamente difesi, ma senza dimenticare che rappresentano una piccola minoranza della società. Le donne, invece, non sono una minoranza anzi, a voler essere precisi, rappresentano la maggioranza della popolazione e questo, in una democrazia, dovrebbe pur contare qualcosa. Se si fa campagna elettorale sul diritto all’adozione dei single o delle coppie omosessuali, dimenticando totalmente le necessità delle famiglie con figli che non riescono ad arrivare a fine mese, si possono avere brutte sorprese al momento dello spoglio. Non si tratta di contrapporre i diritti delle minoranze sessuali a quelli della maggioranza ma di rimettere la questione femminile al centro del dibattito politico, con provvedimenti concreti che vadano al di là degli slogan e delle chiacchiere vuote.
No women no future
Se vogliamo capire perché senza donne non c’è futuro basta prendere in esame alcuni dati economici. In Italia, secondo l’ultimo rapporto del Censis, il tasso di occupazione femminile, che aveva superato il 50 per cento nel 2019, è sceso nel 2021 al 48,3 per cento (nello stesso periodo, gli uomini erano occupati al 66 per cento). La classifica è guidata dai Paesi Bassi con un tasso di occupazione femminile pari al 73,9 per cento, mentre in Europa sta peggio di noi solo la Grecia. E la minoranza di donne che lavorano si è trovata a gestire anche il doppio carico casa-lavoro, con un inedito surplus di difficoltà rispetto a quelle abituali. La pandemia di Covid-19 ha poi ulteriormente peggiorato la situazione, aggiungendo stress, fatica e maggiore impegno nel lavoro e nella vita familiare, in una società dove soltanto una piccola minoranza di maschi contribuisce ai lavori domestici.
L’analisi del Censis è molto precisa: “I dati spiegano meglio di qualsiasi ragionamento perché in Italia si fanno sempre meno figli: le donne lavorano poco e male. A bassi tassi di occupazione si associano sempre bassi tassi di natalità, perché senza soldi i figli non si fanno o comunque se ne fanno di meno”. Da qualche anno in Italia il numero dei morti supera quello dei nati, la popolazione diminuisce e quindi ci sono sempre meno giovani che entrano nel marcato del lavoro, il che rischia di far saltare il sistema pensionistico, con conseguenze catastrofiche per un Paese di anziani come l’Italia. Nella campagna elettorale appena conclusasi, oltre alle promesse demagogiche di raddoppio delle pensioni minime e quota 41, non si è sentito nulla sul drammatico “inverno demografico” che stiamo attraversando, né la parola femminicidio è mai stata pronunciata. Se gli slogan non verranno sostituiti da programmi concreti e lungimiranti che affrontino le vere emergenze di un Paese che non cresce da trent’anni difficilmente vedremo giorni migliori.
Galliano Maria Speri