Secondo molti economisti e demografi l’Africa ha un enorme potenziale di crescita, sia in termini di esportazioni che di consumi, grazie a una popolazione giovane e in costante aumento. Da molti decenni Pechino, pur con qualche battuta d’arresto, ha ideato e realizzato una capillare strategia di penetrazione economica e politica e si trova quindi in una posizione chiave in un continente che giocherà un ruolo determinante nei prossimi decenni. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto una visione adeguata per l’Africa, mentre l’Europa, senza idee e unità politica, sconta il proprio passato coloniale.
Il saggio che la giovane sinologa e giornalista Alessandra Colarizi dedica a questo argomento ha il pregio della chiarezza e di un approccio super partes che cerca di non cadere nei soliti luoghi comuni, che rispuntano sempre quando si affronta il tema Cina. D’altronde, non possiamo certo meravigliarci che le ex potenze imperialiste e quelle emergenti (Cina in primis) cerchino di conquistarsi spazi di influenza nel continente del futuro: giovane, ricco di materie prime, con il tasso di natalità più alto al mondo e una collocazione geografica senza eguali sullo scacchiere internazionale. Ma Pechino non è certo l’unico attore che si muove nell’area. “Tra il 2010 e il 2016 –scrive l’autrice-, in Africa sono state aperte ben 320 ambasciate. Solo la Turchia – che si definisce un ‘paese afro-eurasiatico’ – ne ha inaugurate 26. L’India ha in programma di aprirne altre 20 entro la fine del 2025. Dal 2019 a oggi, summit africani si sono tenuti in Francia, Gran Bretagna, Russia e Turchia”.
Chiaramente, c’è un confronto molto duro tra gli Stati Uniti e quella che è diventata la seconda potenza economica mondiale che pretende ora di vedersi riconosciuto anche un ruolo politico equivalente. Secondo l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), tra il X e il XV secolo, il PIL cinese è rimasto superiore a quello dell’Europa. Ciò che è successo in quei cinquecento anni ha dettato gli equilibri mondiali degli ultimi sei secoli ed è anche significativo per capire l’attuale protagonismo cinese in Africa.
Pechino conduce il gioco
Già nel Medioevo c’erano stati viaggi di flotte imperiali verso l’Africa ma, per venire ai nostri giorni, l’interesse cinese verso quel continente risale agli anni dei movimenti anticoloniali, appoggiati dal governo comunista di Pechino in funzione anti imperialista. Nel 1955 il premier cinese Zhou Enlai, il presidente indonesiano Sukarno, il premier indiano Jawaharlal Nehru, e i rappresentanti di sei paesi africani (Egitto, Etiopia, Liberia, Libia, Sudan e Ghana) si incontrarono a Bandung, in Indonesia, gettando le basi di una cooperazione futura. Come viene anche riconosciuto dalla FAO, con la sua rigogliosa crescita economica negli ultimi decenni Pechino è riuscita a far uscire dalla povertà 800 milioni di persone. Questo semplice fatto rappresenta un potentissimo fattore di attrazione per molti dirigenti africani che vorrebbero replicare lo stesso processo in Africa.
La Cina si è dimostrata molto generosa nel concedere prestiti per grandi progetti infrastrutturali
senza voler imporre condizioni politiche, l’esatto contrario di quanto hanno fatto gli istituti internazionali controllati dalle democrazie occidentali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. In realtà, molti Paesi africani sono stati costretti a rivolgersi alla Cina per mancanza di alternative, dopo gli effetti disastrosi dei programmi di “aggiustamento strutturale” introdotti dalla Banca Mondiale. Secondo l’autrice, l’errore principale compiuto dagli USA è stato che, invece di prestare attenzione alle richieste del popolo africano, Washington si è limitato a perseguire l’obiettivo miope del contenimento anti-cinese. Nonostante questo, un sondaggio effettuato nel 2021 da Afrobarometer, progetto di ricerca panafricano e indipendente che ogni anno misura l’indice di gradimento nei confronti dei paesi stranieri, la maggior parte degli africani preferisce ancora il modello di sviluppo americano. Con buona pace dell’intensa campagna pubblicitaria con cui Pechino ha accompagnato la realizzazione dei propri progetti.
Il braccio operativo di Pechino in Africa è la China Communications Construction Company (CCCC), il conglomerato statale onnipresente, finito sulla lista nera americana per aver contribuito alla militarizzazione delle isole contese nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali con i vicini rivieraschi. Il Dipartimento di Stato USA ha equiparato l’azienda a una “moderna Compagnia delle Indie Orientali”, il potentissimo organismo economico, politico e militare con cui l’Impero britannico consolidò il suo potere in Asia.
Non sono tutte rose e fiori
Ma, nel 2019, ancor prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19 i prestiti all’Africa erano diminuiti del 30 per cento a causa dell’alto livello delle passività, la corruzione locale, l’insostenibilità economica e ambientale dei progetti. Il vecchio modello, liquidità in cambio di materie prime, comincia a mostrare le prime crepe. “Strade, ferrovie e centrali elettriche continueranno ad attirare finanziamenti cinesi. Ma gli ultimi assegni strappati suggeriscono una graduale transizione verso nuove formule di investimento meno spericolate attraverso partecipazioni azionarie e partnership a capitale misto pubblico-privato, così da distribuire meglio i rischi tra contribuenti, aziende e banche statali. Un sistema, noto informalmente come ‘China-Africa Swap’, che imprime un cambiamento radicale rispetto alla tradizionale formula ‘risorse per infrastrutture’, coinvolgendo più investitori privati e ridistribuendo più equamente gli oneri”.
Uno dei Paesi africani in cui la Cina è più attiva è la Repubblica Democratica del Congo perché proprio qui sono presenti ricchissimi giacimenti di litio, cobalto e terre rare. Nel 2019 Cina e Repubblica Democratica del Congo rappresentavano rispettivamente il 60% e il 70% della produzione mondiale di terre rare e cobalto, composti essenziali per l’hi-tech e l’industria bellica. Secondo un rapporto di AidData, tra il 2007 e il 2017, la Cina ha investito nel Paese circa 7,5 miliardi di dollari, di cui quasi 4 finiti proprio nel settore estrattivo; il 70% dei progetti minerari congolesi è ora controllato da società cinesi o cogestito attraverso joint ventures miste. Ma Félix Tshisekedi, l’attuale presidente congolese, ha dichiarato di voler rinegoziare gli accordi tra Kinshasa e Pechino a causa delle condizioni ‘irragionevoli’ che sono state imposte al Congo. Ha inoltre puntato il dito contro il clientelismo filocinese del predecessore Joseph Kabila. Secondo un’inchiesta di Bloomberg, la famiglia dell’ex leader avrebbe sottratto alle casse dello Stato centinaia di milioni di dollari grazie alla mediazione di Simon Cong, un uomo d’affari che possiede alcune delle aziende cinesi coinvolte nei progetti stradali intrapresi nei primi anni Duemila.
Per quanto riguarda le telecomunicazioni, Pechino è in una posizione dominante che sarà difficile scalfire, mentre rimane fondamentale anche nel settore dell’e-commerce, grazie alla electronic World Trade Platform, creata dalla cinese Alibaba, – con hub regionali in Etiopia e Ruanda – che fornisce alle piccole e medie imprese soluzioni integrate, mixando pagamenti mobili, logistica, cloud computing e formazione all’imprenditorialità digitale. Con la strategia aggressiva di Xi Jinping qualcosa è cambiato perché è diventato sempre più difficile mantenere il tanto sbandierato neutralismo, rispetto alle politiche dei Paesi africani. Molto spesso cominciano a emergere soluzioni cinesi per i non cinesi. “Dal 2015 in poi –scrive l’autrice- è possibile notare un comportamento più aggressivo nella promozione in Africa di soluzioni ‘con caratteristiche cinesi’. Soprattutto in riferimento alla diffusione di nuovi standard tecnologici, ma non è escluso che la crescente assertività cinese raggiunga in futuro altri ambiti. Ambiti tradizionalmente di pertinenza occidentale”.
Come succede a volte nei lavori dei sinologi, il legame culturale e, implicitamente, anche sentimentale che li lega al Paese del dragone, porta a non evidenziare con la sufficiente chiarezza gli aspetti strategico-militari della politica cinese. È vero che Colarizi riporta uno studio del Center for Strategic and International Studies di Washington secondo il quale “il coinvolgimento cinese nei porti assicura a Pechino il controllo sui flussi commerciali e sulla catena di approvvigionamento globale. Senza contare il pericolo che lo sviluppo di infrastrutture marittime di grandi dimensioni potrebbe un giorno facilitare una conversione militare dei progetti portuali sulla falsariga di Gibuti”, dove la Cina ha la sua unica base militare all’estero. L’autrice sembra però dare per scontato che la Cina non lancerebbe mai un’aggressiva campagna bellica perché questo non è coerente con lo spirito confuciano che, secondo quanto racconta la dirigenza del Partito comunista cinese, governa la filosofia politica di Pechino. Questo è un aspetto che andrebbe approfondito e studiato ulteriormente per cercare di fare chiarezza su un punto fondamentale per i prossimi decenni.
Alessandra Colarizi
Africa rossa
Il modello cinese e il continente del futuro
L’ Asino d’oro, 223 p., 14 euro
Galliano Maria Speri