In Italia l’Africa viene sempre evocata con un misto di stupore e paura, oppure come occasione per un mirabolante “Piano Mattei” che è uno slogan senza contenuti e che, in ogni, caso non abbiamo la forza di mettere in atto. Purtroppo, il futuro dell’Africa, un continente molto giovane e ricco di preziosissime materie prime, appartiene ormai a quelle potenze che da decenni hanno una presenza radicata in termini economici e militari. Cina, Russia, Turchia e Israele si trovano in posizione dominante e la vecchia Europa, una nullità politica per quanto riguarda il continente, può soltanto limitarsi ad appelli e raccomandazioni. Un saggio ben informato fa il punto della situazione.
Esiste da tempo una ricca letteratura sulla presenza cinese in Africa, il principale realizzatore di vitali opere infrastrutturali e primo erogatore di crediti, avendo superato da tempo sia il Fondo Monetario Internazionale che la Banca mondiale. Meno noto è invece il ruolo giocato dalla Russia e dalla Turchia e, inaspettatamente, da Israele che, nel tempo, è riuscito a ritagliarsi un ruolo importante nel settore agricolo, quello della sicurezza e dell’intelligence. Il saggio di Matteo Giusti, giornalista esperto di Africa, conduttore di programmi radiofonici e televisivi, offre un’analisi a tutto campo dando voce a un articolato gruppo di giornalisti e commentatori che analizzano il complesso mosaico delle operazioni gestite dalle potenze emergenti che, in concorrenza tra di loro, hanno ormai emarginato l’Europa, mentre gli Stati Uniti non sembrano mostrare interesse per rientrare nella partita.
La politica a lungo termine del dragone
Da diversi anni Pechino ha aperto una propria base militare a Gibuti, uno snodo centrale del traffico navale mondiale, sollevando preoccupazioni sul potenziale controllo che potrebbe esercitare sulle rotte marittime. Ma le relazioni della Cina con l’Africa affondano le proprie radici in un passato lontano. Anche se non erano mancati sporadici contatti già nelle dinastie precedenti, all’inizio del 1400, durante la dinastia Ming, l’ammiraglio Cheng Ho, alla testa di oltre trecento navi, salpò prima per l’Asia meridionale, poi per il Medio Oriente, per raggiungere in seguito il Corno d’Africa, dove soldati e mercanti imperiali stabilirono una base nelle isole davanti all’attuale Somalia. Non è quindi la prima volta che i cinesi si impiantano nella zona.
Giusti ci ricorda che “la politica estera cinese ha una lunghissima continuità grazie a una classe politica con una visione imperiale da un paio di millenni. In realtà hanno sempre praticato una forma di espansionismo sociale, ma molto diverso da quello degli occidentali. Xi Jinping ha manipolato la storia presentandosi come non colonialista, quando invece basta guardare la cartina per capire che un terzo del territorio cinese sia formato da colonie. Il Tibet, la Mongolia, lo Xinjiang, ma anche Stati vassalli come la Corea o l’Indocina, testimoniano una lunghissima tradizione di colonialismo. L’illusione che la Cina avesse un approccio diverso di politica internazionale è appunto solo un’illusione dettata da un periodo storico che non le permetteva di avere un approccio internazionale diverso e diretto”.
Mentre quella che è stata definita la “strategia del debito” ha sollevato dubbi e preoccupazioni, c’è un aspetto collaterale del crescente indebitamento dei Paesi africani verso Pechino che non ha ricevuto la giusta attenzione. A causa di questa situazione, la Cina è infatti molto vicina a controllare l’ampio pacchetto di voti che vengono dall’Africa, consentendo così a Pechino un peso determinante all’interno delle istituzioni internazionali, ONU in testa. La Cina già domina, oppure è in posizione preminente, in quattro delle quindici agenzie dell’ONU, risultando il Paese con il più alto numero di dirigenti. Tutto in funzione di un continuo sviluppo e per l’onnipresente progetto della Belt and Road Initiative, la Via della Seta: la chiave per la nuova visione geopolitica mondiale del gigante asiatico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), guidata da un medico proveniente dall’Etiopia (in cui Pechino ha fatto notevoli investimenti), ha visto crescere investimenti e influenza cinesi.
Ma l’OMS non è l’unica organizzazione internazionale dell’ONU in cui la Cina ha accresciuto il proprio potere: nel 2019, infatti, la direzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) è passata proprio alla Repubblica Popolare Cinese, dopo un testa a testa con l’Unione Europea. Grazie alla vittoria dell’ex viceministro dell’Agricoltura Qu Dongyu, il governo cinese è riuscito a raggiungere i vertici di una delle più importanti agenzie specializzate dell’ONU e a imporsi come nuova guida delle politiche agricolo-alimentari a livello globale. I cinesi hanno un fermo controllo anche dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU): dopo il primo mandato nel 2014, l’ex ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni è stato eletto una seconda volta a capo dell’ITU nel 2018, in una fase particolarmente importante per il destino delle telecomunicazioni.
Mosca offre la propria “protezione”
Negli anni Sessanta del secolo scorso, i sovietici avevano una capillare presenza nel continente africano dove appoggiavano la lotta anti-coloniale dei vari Paesi che iniziavano a guadagnarsi l’indipendenza. Con il crollo del comunismo, la strategia di penetrazione in Africa subì una drastico arretramento. L’offensiva è ripresa da Putin che individua nell’Africa un ricco mercato per l’esportazione di armi e di prodotti russi. Nel 2019 arrivano a Sochi, ridente località sul Mar Nero, i rappresentanti di 47 Paesi africani per un grande incontro al vertice che aveva come slogan “Per la pace, la sicurezza e lo sviluppo”. È una svolta per i rapporti russo-africani. Mentre Boris Eltsin aveva cercato inutilmente di riscuotere debiti ormai inesigibili, Putin cancella tutte le vecchie pendenze e si apre nuove opportunità.
In Algeria la Russia annulla un debito di 4,7 miliardi di dollari in cambio di contratti militari miliardari per Rosoboronexport e affari energetici per Gazprom e Sonatrach. Una cifra simile era stata condonata al leader libico Gheddafi, che in cambio aveva ceduto l’intero settore dei trasporti. In Egitto, un vecchio cliente dei sovietici dai tempi di Nasser, la Russia firma con al-Sisi accordi militari da oltre sei miliardi di dollari e la costruzione di una centrale nucleare, e nasce anche una partnership agroalimentare con il grano russo, che è apparso sulle tavole egiziane. Il risultato finale è che Mosca arriva a detenere il primato del mercato delle armi in Africa con il 39 per cento, avendo alle spalle la Cina, stabilmente al secondo posto con il 17 per cento, dopo aver staccato gli Stati Uniti, rimasti fermi all’11 per cento.
In dieci anni, dal 2009 al 2019, le esportazioni russe in Africa hanno raggiunto i 100 miliardi di
dollari, ma l’80% è concentrato in soli sette Stati: Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Nigeria, Sudan e Sudafrica. In soli tre anni si sono moltiplicati i contratti in essere. Fino al 2017 solo sette Paesi avevano accordi per la fornitura di armi o di istruttori; oggi sono più di venti. Fra questi, vanno annoverati quelli con Angola, Guinea-Conakry, Guinea-Bissau, Mali e Mauritania: tutte intese che vedono in cambio la presa del controllo minerario in Paesi ricchi di materie prime, a volte ancora non sfruttate. Putin ha anche usato cinicamente il ruolo del Gruppo Wagner, una milizia mercenaria russa che fa il lavoro sporco per il Cremlino ma senza coinvolgerlo ufficialmente. In Mali, fino a pochi anni fa saldamente nella sfera d’influenza francese, il colonnello golpista Goïta ha chiesto aiuto a Mosca che ha prontamente fatto arrivare le milizie della Wagner.
Nel 2017 viene eletto presidente della Repubblica Centrafricana l’ex primo ministro Faustin-Archange Touadéra. Durante una visita a Mosca, il presidente firma un accordo che “concede alla Russia lo sfruttamento minerario della Repubblica Centrafricana, in cambio di equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura e soprattutto istruttori militari del Gruppo Wagner. Ma questa collaborazione è più serrata di quello che può sembrare, perché il consigliere per la sicurezza del presidente Touadéra è il russo Valery Zakharov e la sua guardia personale è formata da quaranta miliziani russi. Naturalmente il governo russo smentisce per l’ennesima volta ogni diretto collegamento con il Gruppo Wagner, ma anche qui sembra davvero poco convincente. I russi sono diventati così i veri padroni della politica interna centrafricana prendendo il controllo delle risorse minerarie del Paese, e la rivista dei padri comboniani ‘Nigrizia’ li accusa di utilizzare mercenari sudanesi, ex janjaweed (“Diavoli a Cavallo”), che si erano macchiati di terribili crimini nella guerra fra il Sudan e la provincia ribelle del Darfur”.
Erdoğan sogna un New Deal con l’Africa
La politica africana della Turchia inizia nel 1998 quando, reagendo alle difficoltà di ingresso nell’Unione Europea, Ankara si rivolge all’Africa aprendo nuove ambasciate nel continente. Ma un governo ancora troppo debole non portò avanti questa strategia, rinviando tutto al 2003. A quella data la Turchia aveva solo 12 ambasciate in Africa e investiva meno di 100 milioni di dollari. Oggi Ankara vanta ben 42 rappresentanze diplomatiche e 6,5 miliardi di dollari di investimenti. E non è finita qui, perché sono già in corso le aperture in Guinea-Bissau, in Lesotho e in eSwatini. Nel 2005 Erdoğan, allora Primo ministro, visita Etiopia e Sudafrica, annunciando che quello sarà l’“Anno dell’Africa”. Da allora l’uomo chiave della politica estera turca ha visitato il continente africano ben 27 volte, riuscendo anche a trasformare il suo Paese da semplice osservatore a partner strategico dell’Unione Africana già nel 2008. Erdoğan si è fatto vedere anche in posti molto problematici come la Somalia, visitata nel 2011, che è diventata uno Stato determinante nella sua politica continentale.
Per il nuovo “sultano”, l’Africa è una grande occasione da non sprecare assolutamente, utile a superare tutte le difficoltà di un mercato interno colpito dalla crisi economica e dal crollo della lira turca. Un ulteriore incentivo al commercio è fornito anche dal pregio dei prodotti offerti, perché i manufatti turchi costano meno di quelli europei e sono qualitativamente superiori a quelli proposti dalla Cina. Oltre a sfruttare l’aspetto religioso per migliorare la propria penetrazione nei Paesi islamici, la Turchia ha anche cercato di usare il proprio soft power. Le soap opera turche hanno anche ottenuto una notevole popolarità in Paesi africani come il Sudan, il Ghana e il Kenya, aprendo così le classi abbienti di quei Paesi a destinazioni turistiche turche, e diffondendo la percezione della società turca come una “società moderna e progressista”. Ma non sono tutte rose e fiori perché proprio in Africa sono affiorati gli accordi innominabili che, da tempo, Erdoğan ha stretto con vari gruppi terroristici.
Secondo Giusti, “in Africa agisce la Fondazione religiosa turca Maarif, accusata di avere rapporti diretti con gruppi jihadisti operanti in Siria, e Ankara si ritrova ad affrontare molte accuse secondo le quali starebbe sponsorizzando organizzazioni terroristiche nel Sahel e nell’Africa occidentale. Alcuni analisti sostengono che una parte essenziale delle sue mosse nella regione dipende dall’armare organizzazioni terroristiche e mercenarie con l’obiettivo di rafforzare la presenza turca, controllare le risorse naturali e la ricchezza, e sostenere le correnti politiche dell’islam”. Un altro fatto preoccupante è che nel marzo del 2020 Ankara ha nominato come suo ambasciatore in Senegal un diplomatico che aveva espresso simpatie per Al-Qaida, definita un legittimo movimento di resistenza e non un’organizzazione terroristica. Alcuni rapporti indicano inoltre che tra i combattenti che Erdoğan ha inviato in Libia ci sono 229 alti dirigenti di organizzazioni terroristiche del Fronte al-Nusra e dell’Isis.
Le amicizie pericolose di Israele
I rapporti dello Stato ebraico con l’Africa risalgono agli anni Sessanta del XX secolo quando, con la fine del colonialismo, sorsero nuovi Stati a cui Israele guardava con simpatia. La risposta africana fu molto positiva, e soltanto la Mauritania e la Somalia si rifiutarono di avviare rapporti diplomatici con lo Stato israeliano. Tecnici, ingegneri, esperti di sicurezza di Tel Aviv si sparpagliarono così nel continente dimostrando come la collaborazione poteva essere proficua per entrambi i partner, soprattutto nei settori del commercio e dell’agricoltura. Tutto crollò però nel 1973 con la Guerra del Kippur. Il Sudafrica, allora governato da bianchi razzisti e con una numerosa comunità ebraica, appoggiò Israele e i rapporti tra i due Paesi divennero sempre più stretti.
Senza nessun imbarazzo nel collaborare con un governo razzista che praticava l’apartheid, Israele armava e addestrava l’esercito di Pretoria, che in cambio riforniva il Paese mediorientale di materie prime, nonostante l’embargo imposto dalle Nazioni Unite. Insieme misero le basi per il programma nucleare israeliano, con il materiale fissile fornito dai sudafricani. Questo rapporto andò avanti fino alla fine degli anni Ottanta, quando iniziò a raffreddarsi per poi quasi fermarsi alla fine del regime dell’apartheid. Israele ebbe parte anche nella guerra civile in Rhodesia, dove insieme al Sudafrica e al Portogallo rifornì di armi il regime razzista di Ian Smith colpito dalle sanzioni, e nella secessione del Biafra in Nigeria, dove si schierò al fianco dei secessionisti biafrani
Nonostante questo precedente molto controverso, Israele ha condotto una efficace strategia diplomatica che ha portato all’apertura di 13 ambasciate nel continente. Gli ultimi Stati a normalizzare i rapporti con Tel Aviv sono stati il Marocco e il Sudan, mentre Algeria, Comore, Gibuti, Mali, Niger, Somalia e Tunisia ancora non riconoscono Israele. Con l’Etiopia i rapporti sono molto proficui e i due Paesi hanno siglato nel 2019 un accordo di cooperazione economica e militare e per la condivisione di informazioni e lotta al terrorismo nella regione. Per ovvi motivi, le relazioni tra Israele la Repubblica Sudafricana sono molto problematici. Con una decisione che ha suscitato molte critiche e malumori, nel gennaio del 2022, dopo 19 anni, Israele è stato riammesso come osservatore nell’Unione Africana. Ma la decisione è stata ritirata un mese dopo, vista la contraddizione di termini nell’ammettere nella principale organizzazione continentale un Paese che viola da decenni le delibere ONU sullo Stato palestinese e pratica una politica di vero e proprio apartheid verso i propri cittadini di origine araba.
Il saggio si chiude riconoscendo alla Cina il ruolo centrale che si è saputo conquistare in Africa, mentre la Russia di Putin ha sorpreso tutti per la sua capacità di penetrazione che le ha permesso di diventare il primo esportatore di armi e di addestrare le truppe locali, formando una classe militare che, anche grazie ai mercenari del Gruppo Wagner, riesce a prendere il potere con la forza, come è avvenuto in Mali o Guinea-Conakry. Giusti ritiene che gli Stati Uniti, già con le amministrazioni di Obama e poi di Trump, abbiano rinunciato a qualunque intervento nel continente ma, se lo decidessero, avrebbero ancora la possibilità di recuperare un qualche ruolo mentre “l’Europa, se non troverà rapidamente una politica estera comune e unitaria, si ritroverà tagliata completamente fuori da ogni gioco geopolitico nel continente africano”.
Matteo Giusti
La Loro Africa
Le nuove potenze contro la vecchia Europa
Castelvecchi, pag. 99, euro 13.50
Galliano Maria Speri