La maggior parte degli analisti sembra convinta che lo sciagurato attacco a Kyiv vada inserito in un’ampia strategia di Putin per riportare in vita l’antica potenza imperiale russa. Si dà per scontato che, per interposta persona, Mosca stia combattendo una battaglia senza tregua contro la feroce aggressività della NATO a guida statunitense. E se invece il suo fosse stato anche un tentativo di rafforzarsi a livello internazionale per riguadagnare una posizione più solida all’interno di un’alleanza sempre più sbilanciata verso la Cina? Il clamoroso fallimento militare ha però indebolito ulteriormente Putin e ha accresciuto la sua dipendenza dall’amico-rivale Xi Jinping.
Ufficialmente, i presidenti di Cina e Russia hanno visioni strategiche simili poiché vogliono rimettere in discussione l’attuale ordine mondiale egemonizzato dagli Stati Uniti, accusati di osteggiare e non riconoscere il loro ruolo di grandi potenze. Hanno anche un ottimo rapporto personale, consolidato in più di 40 incontri faccia a faccia. Nella loro penultima riunione a Pechino, Vladimir e Xi hanno riaffermato la natura “senza precedenti” dei loro legami, hanno sostenuto di essere preoccupati per l’influenza negativa degli USA in Europa e in Asia-Pacifico, si sono opposti a “un’ulteriore espansione della NATO” in quello che è stato definito un approccio “da guerra fredda” e si sono ripromessi aiuto reciproco in caso di peggioramento della situazione internazionale. Era il 4 febbraio 2022 e Putin si apprestava a ordinare l’invasione dell’Ucraina, aspettando però la fine dei giochi olimpici invernali di Pechino, per non danneggiare l’immagine dell’alleato Xi.
I calcoli sbagliati del Cremlino
Da allora, i due presidenti hanno avuto un altro incontro ufficiale, stavolta a Mosca. Dopo tre giorni di colloqui, terminati il 22 marzo 2023, hanno firmato un accordo di cooperazione che proietta i legami tra Russia e Cina in una “nuova era”. In una dichiarazione congiunta, i due leader hanno annunciato un approfondimento del partenariato strategico e 14 nuovi accordi. Sia Mosca che Pechino hanno intenzione di potenziare i loro collegamenti stradali e ferroviari e Putin ha garantito che Mosca è “pronta a soddisfare la crescente domanda di energia” dell’alleato, fornendo assicurazioni sulla realizzazione a breve di un secondo gasdotto che trasporterà gas dalla Siberia alla Cina. La semplice presenza di Xi nella capitale russa ha mostrato che la relazione tra i due Paesi è sempre più stretta, anche se sempre meno alla pari.
Purtroppo per Putin, molte cose sono cambiate dal 4 febbraio 2022. In quell’occasione l’aspirante zar aveva pubblicato su Xinhua, la principale agenzia stampa della Repubblica Popolare Cinese, un suo articolo in cui presentava un disegno politico ben preciso. Il presidente russo affermava che il partenariato strategico globale di Russia e Cina aveva raggiunto un livello senza precedenti e che le nuove relazioni erano superiori alle alleanze politiche e militari al tempo della guerra fredda, aggiungendo inoltre che il loro rapporto era caratterizzato da “un’amicizia senza limiti”. La sua idea di alleanza consisteva in un rapporto alla pari in cui il peso e il prestigio della Russia sarebbero stati accresciuti dalla brillante guerra lampo che si apprestava a condurre in Ucraina e questo avrebbe sancito nuovamente lo status imperiale di Mosca, dopo le umiliazioni subìte con il crollo dell’Unione Sovietica. L’invasione si è però rivelata un disastro e “l’operazione militare speciale” ha mostrato al mondo la fragilità di quella che era stata presentata come una terrificante macchina militare agli ordini del Cremlino. Questa debolezza è risultata subito evidente sia agli occhi di Washington che a quelli di Pechino, e la posizione di Putin si è improvvisamente fatta molto difficile.
Il potere del nuovo zar è garantito da una struttura piramidale dominata, con cinismo e crudeltà, da una sola persona che fa e disfa secondo i suoi voleri. Lo strumento si è rivelato molto efficace per mantenere il controllo sugli apparati statali e sulle forze armate, ma ha creato un sistema di yes-men tremebondi che dicono al capo soltanto quello che lui vuol sentire e questa è una delle cause principali del disastro ucraino. Come ex agente del KGB, scioccato dal crollo dell’URSS a cui lui assistette in diretta nella Germania comunista, Putin è in grado di analizzare freddamente i vari aspetti di un’operazione, valutare le possibili reazioni del “nemico” e agire di conseguenza. Le informazioni sulle reazioni di Kyiv si sono rivelate clamorosamente errate ma una persona con l’esperienza e l’intelligenza di Putin non può non aver calcolato che un’annessione rapida e indolore dell’Ucraina avrebbe sancito non solo un suo accresciuto status internazionale, ma anche ridefinito vantaggiosamente i suoi rapporti con Xi Jinping, che ha alle spalle un’economia in espansione e gioca un crescente, e riconosciuto, ruolo internazionale.
Lo sviluppo prodigioso della Cina, che in trent’anni ha fatto uscire dalla povertà estrema 850 milioni di persone, non può essergli sfuggito, come pure il bilancio molto magro della situazione economica russa, ancora dipendente principalmente dall’esportazione di materie prime e di combustibili fossili che, in un’ottica di transizione verso energie pulite, non potranno produrre ricchezza ancora a lungo. Un brillante successo militare in Ucraina avrebbe costretto l’odiato Occidente a riconoscere che Mosca è sempre un attore di primo piano sulla scena internazionale, ma avrebbe anche segnalato a Pechino che l’orso russo è ancora forte e potente, per cui il dragone doveva essere estremamente cauto nelle sue mire espansionistiche verso la Siberia. Grazie alla vittoriosa campagna in Ucraina, l’alleanza si sarebbe dovuta configurare come un rapporto paritetico tra una potenza commerciale in espansione (la Cina) e una potenza militare che incuteva timore e rispetto nel mondo (la Russia), in grado quindi di creare un nuovo equilibrio globale che ridimensionasse il ruolo degli Stati Uniti e l’egemonia finanziaria del dollaro. Mai calcolo fu più sbagliato di questo e se nella guerra russo-ucraina c’è un vincitore questo è senz’altro la Cina. Visti gli sviluppi che ha innescato, rafforzamento della NATO, sanzioni economiche e aumentata influenza cinese, è corretto affermare che Mosca ha già perso la sua guerra.
Un’alleanza molto sbilanciata
È certamente paradossale che, invece di accrescere la sua influenza in Europa, l’invasione dell’Ucraina abbia invischiato Putin in un conflitto che rischia di sancirne la debolezza. L’Unione Europea non ha accettato il ricatto energetico di Mosca e, con uno sforzo titanico rapido e deciso, ha ridotto drasticamente la sua dipendenza dal gas russo, servendosi di altri fornitori che offrivano prezzi superiori a quelli di Mosca che però si è trovata in una situazione anche peggiore. L’enorme infrastruttura per l’esportazione del gas verso l’Europa non è più una fonte illimitata di profitti facili ma, in prospettiva, si sta rivelando un costo crescente. L’unica alternativa rimasta a Putin è stata quella di vendere gas e petrolio alla Cina e ad altri clienti asiatici a prezzi ribassati. Pechino ha colto la palla al balzo e ha aumentato massicciamente le sue importazioni energetiche da Mosca che si è impegnata a fornire all’alleato entro il 2030 almeno 98 miliardi di metri cubi di gas e 100 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (GNL). Ma il dato ancora più interessante è che la Russia ha annunciato di voler favorire l’uso della valuta cinese, lo yuan, nei pagamenti in Asia, Africa e Sud America, segnalando quindi una sua progressiva integrazione nel sistema economico cinese.
Un nuovo gasdotto, Power of Siberia 2, che dovrebbe raddoppiare quello già esistente tra Russia
e Cina, ha completato l’iter tecnico e politico ma Xi non ha alcuna intenzione di affrettarne la costruzione perché, nonostante le profferte di amicizia eterna, ha stipulato diversi accordi per le forniture energetiche con molti altri produttori. Ha fatto molto scalpore l’accordo firmato nel novembre del 2022 con il Qatar che prevede la fornitura di gas naturale liquefatto per un periodo di 27 anni e per un ammontare di 60 miliardi di dollari. Il contratto, che impegna il Qatar a esportare ogni anno 4 milioni di tonnellate di GNL in Cina, è il più lungo mai stipulato e conferma l’interesse di Pechino a garantirsi forniture in un arco di tempo molto lungo, a prescindere dagli interessi immediati di Mosca. Sembra che il dragone abbia fatto tesoro degli errori dell’Europa nel dipendere troppo da un unico fornitore energetico e punta a giocare su più tavoli. In questa alleanza, che sembra sempre più un matrimonio di interesse, il macho Putin potrebbe essere costretto obtorto collo a giocare il ruolo della sposina ritrosa, mentre Xi Jinping appare sempre più come un marito-padrone.
Secondo i dati ufficiali resi noti dall’Agenzia delle dogane cinese, nel 2022 l’interscambio tra Russia e Cina è cresciuto di oltre il 29 per cento e ha raggiunto l’equivalente di 190 miliardi di dollari. L’export cinese valeva 76,1 miliardi (+13% sul 2021), mentre l’import dalla Russia ha raggiunto i 114,1 miliardi di dollari, con un aumento del 43,4 per cento rispetto al 2021. Inoltre, mentre l’interscambio con la Cina rappresenta il 16,5 per cento del proprio commercio internazionale, la Russia copre soltanto il 2,4 per cento del commercio cinese, un valore totalmente trascurabile (l’interscambio Cina-USA rappresenta l’11,9 per cento). Un altro dato che ci fa capire quanto sia sbilanciato il rapporto tra Mosca e Pechino è che mentre le esportazioni russe sono rappresentate quasi all’80 per cento da idrocarburi e derivati, legno, minerali ferrosi e non ferrosi, il 44 per cento delle esportazioni cinesi è composto da macchinari e apparecchiature elettroniche.
Con il peggioramento delle sue relazioni con i Paesi occidentali, Putin si troverà in un crescente rapporto di sudditanza verso Pechino non soltanto nello scambio di beni fisici ma anche di servizi. Essendo stata bandita dallo SWIFT, il sistema internazionale di pagamenti interbancari usato dalla maggioranza delle banche mondiali, la Russia ha già annunciato l’integrazione del proprio sistema di transazioni finanziarie con il sistema di pagamenti interbancari cinese, noto come CIPS, a cui aderiscono già oltre cento Paesi nel mondo. A causa delle sanzioni occidentali, Mosca non può evitare l’abbraccio sempre più soffocante di Pechino che ha un Prodotto interno lordo dieci volte superiore a quello russo. L’unica consolazione per lo zar è che Xi Jinping non potrà mai egemonizzare completamente i Brics (il gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) grazie alla presenza dell’India, anch’essa un gigante che ha una potenza commerciale e demografica in grado di fronteggiare la Cina.
Siberia, una terra che scotta
Nonostante la sbandierata “amicizia senza limiti”, Russia e Cina hanno ancora un contenzioso de facto che si trascina da almeno quattro secoli, ed è la Siberia, scrigno di tutte le ricchezze minerarie e fonte dalla maggioranza degli introiti che finanziano la politica neo-imperiale di Putin. Il confine comune si estende per 4200 chilometri ed è percorso da forti tensioni perché la densità abitativa e il benessere economico dei due territori sono molto diversi. Per capire meglio la problematica si può percorrere il fiume Amur che, per oltre 1600 chilometri, rappresenta un confine naturale tra Siberia orientale e Cina. Lo fece nel 1991 il grande giornalista Tiziano Terzani che, nel mezzo del devastante collasso dell’Unione Sovietica, descrisse quelle lontane lande desolate, difese da sparuti avamposti militari, a cui si contrapponevano numerosissimi insediamenti cinesi che premevano lungo tutta la linea del confine orientale. Colin Thubron, un decano della letteratura di viaggio, ha pubblicato nel 2022 un libro che ripercorre lo stesso itinerario sul fiume Amur e ci racconta di due sponde, una settentrionale, la russa, intrisa di amarezza, disillusione e ricordi di deportazioni e massacri senza giustificazioni, e una meridionale, quella della provincia cinese Heilongjiang, fatta di città effervescenti con grattacieli, centri commerciali e viali alberati.
Nella Siberia orientale abitano oggi circa sei milioni di russi (erano nove milioni nel 1990), un ventesimo della popolazione residente nelle tre province cinesi di Liaoning, Heilongjiang, Jelin. La fuga dall’area degli abitanti russi è iniziata dopo il crollo dell’URSS e non si è più arrestata, aprendo le porte a una capillare emigrazione cinese verso quelle regioni di confine che, fino al Trattato di Pechino, erano parte integrante della Manciuria, terra d’origine dell’ultima dinastia imperiale Qing. I cinesi sono arrivati in massa alla fine degli anni ’90 quando, in seguito allo smantellamento delle fattorie collettive sovietiche, migliaia di ettari di terreni vennero abbandonati. Questo consentì l’arrivo di centinaia di migliaia di cinesi che presero in affitto, spesso a tassi preferenziali, enormi estensioni di terreni per la produzione di cibo da esportare poi verso la madre patria.
Il governo centrale di Mosca si è concentrato sullo sfruttamento minerario ed energetico, permettendo che le imprese cinesi acquisissero il controllo su decine di migliaia di ettari che hanno fruttato entrate minime per i governi locali ma a un prezzo enorme per l’ambiente. Un problema aggiuntivo è che questo non ha comportato particolari benefici per la popolazione siberiana, visto che la manodopera stagionale che lavorava negli appezzamenti proveniva dalla Cina. La crescente immigrazione cinese non si è però limitata a prendere in affitto grandi estensioni di terre ma ha avuto un impatto significativo anche su tutte le attività economico-commerciali della regione. La Siberia dista circa 10 mila chilometri dai principali centri economici del Paese e quindi non ci dobbiamo sorprendere più di tanto che gli scambi commerciali siano orientati principalmente verso la Cina, mentre soltanto il 10 per cento avviene con il resto della Federazione Russa. Il Cremlino si rende perfettamente conto che una rilevante immigrazione che si somma a una crescente influenza economica rappresenta una miscela esplosiva ma, evidentemente, non ha alternative.
Osservando una vecchia mappa che riproduce i confini tra l’allora Unione Sovietica e la Manciuria, notiamo che vaste aree, una volta cinesi, sono state inglobate progressivamente dalla Russia zarista con il Trattato di Nerčinsk (1689), il Trattato di Algun (1858) e, infine, il Trattato di Pechino (1860). In molte di quelle aree è presente una forte componente di immigrati cinesi che, in un certo qual modo, sono tornati a “casa loro”. E non è certo la prima volta che l’immigrazione cinese in Russia fa crescere le tensioni tra i due Paesi. Dopo il 1959 ci furono scontri ripetuti tra Nikita Chruščëv, il segretario del PCUS che aveva avviato la destalinizzazione, e Mao Zedong, capo supremo della Cina, finché si giunse a una rottura vera e propria. Questo avvenne sia per motivi ideologici ma anche perché Mosca si era resa conto che le centinaia di migliaia di contadini cinesi spediti da Mao in Siberia non rappresentavano un aiuto disinteressato per un “Paese fratello”, ma erano parte di un disegno strategico vero e proprio.
Molti analisti ritengono che anche l’emigrazione cinese attuale, silenziosamente favorita da Pechino, abbia risvolti politici sul futuro rapporto di forze. I cinesi non hanno certo dimenticato che la città strategica di Vladivostok, fondata nel 1860, sorge su quello che era un accampamento di pescatori cinesi che si chiamava Haishenwai. Le tensioni arrivarono a un vero e proprio conflitto nel 1969, quando truppe russe e cinesi si affrontarono per il controllo dell’isola Damansky (chiamata Zhenbao dai cinesi) al centro del fiume Ussuri. Gli scontri, costati la vita a qualche centinaio di militari delle due parti, si protrassero per sei mesi, fino alla proclamazione di una tregua. La disputa fu risolta soltanto nel 2003 con un accordo che segnava una linea di demarcazione riconosciuta da entrambi i contendenti. Nel frattempo, nella Siberia orientale sta avvenendo una colonizzazione sotto traccia che non accenna a fermarsi. Già nel 1999 Viktor Izhaev, l’allora governatore del territorio di Khabarovsk, denunciava che “presto l’intero estremo oriente russo sarà comprato dai cinesi, sta avvenendo un’occupazione pacifica”. I fatti confermano le sue preoccupazioni ma, a causa della débâcle ucraina, Putin non può muovere un dito e il tempo non sembra giocare a suo favore.
Il disegno di Xi
L’amicizia tra Russia e Cina sarà pure “senza limiti” ma, è un dato di fatto, che uno dei due amici è molto più forte dell’altro e lo sta diventando sempre di più. La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, patrocinata da Pechino, ha sancito il ruolo politico globale della Cina, sottolineato ulteriormente dalla telefonata fatta da Xi Jinping al presidente ucraino Zelensky che ha suscitato molte aspettative. Mentre non è ancora chiaro come questo colloquio telefonico possa contribuire alla pace, l’annuncio cinese ha certamente migliorato l’immagine di Pechino nel mondo, soprattutto agli occhi di quello che viene definito “Global South”. La Cina può presentarsi come una grande potenza pacifica che punta alla crescita economica, nel rispetto di tutte le individualità nazionali, senza ingerenze negli affari interni dei Paesi che decidono di entrare nel suo disinteressato disegno di sviluppo. Al costo di una sola telefonata, Xi può recitare la parte del portabandiera di quella parte del mondo che desidera soltanto lo sviluppo economico, la pace e la stabilità sociale.
Anche Mosca ha una sua politica globale, ma il suo prestigio, se vogliamo chiamarlo così, è legato all’esportazione di armi e alle operazioni sporche delle milizie mercenarie della Wagner del nazionalista Evgenij Prigožin. Mosca ha una forte presenza militare in molti Paesi africani, Libia, Mali, Repubblica centrafricana, Mozambico, Sudan, e gode del favore di molti “uomini forti” che hanno bisogno degli armamenti russi per conquistare o mantenere il proprio potere. Non è certo un bellissimo biglietto da visita per chi ambisce a giocare un ruolo da grande potenza. Se il soft power russo è affidato soltanto alle brutali operazioni dei mercenari della Wagner sarà difficile aumentare le simpatie verso il Cremlino e questo favorisce ancora di più l’alleato-concorrente Xi. Se il tandem Cina-Russia, alleato con i Brics e il Global South, aspira a modificare l’ordine mondiale e insidiare la preminenza del dollaro statunitense, il manubrio è saldamente nelle mani del presidente cinese, mentre quello russo non può fare altro che pedalare per accrescere la gloria altrui.
Un segnale che Xi ha cominciato a giocare anche nel cortile di casa di Putin è inoltre rappresentato dall’invito rivolto dal leader cinese ai presidenti di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan a recarsi a Pechino il prossimo maggio per il primo incontro al vertice Cina-Asia centrale. In un’intervista a Start Magazine del 25 marzo 2023 il professor Francesco Sisci, senior researcher presso la China People’s University, commenta così il prossimo incontro di maggio: “La Cina non vuole rimanere scoperta in un eventuale crollo della Russia come fu presa di sorpresa dal crollo dell’Unione Sovietica, quindi in qualche modo si prepara a quella eventualità, in una specie di assicurazione. E questo è anche un avvertimento alla Russia con cui la Cina le dice ‘più passa il tempo in cui tu sei coinvolta nella guerra in Ucraina e più è facile che, se non perdi a Ovest, tu perda zone d’influenza ad Est’. Siamo dunque in un frangente molto delicato, come è dimostrato dalla tempistica del viaggio a Mosca di Xi”. Dalla Russia non si hanno informazioni su forme di opposizione popolare all’invcasione dell’Ucraina, mentre sono trapelati gli scontri furiosi all’interno degli ambienti militari e dei nazionalisti fanatici che accusano Putin di debolezza nella condotta della guerra. L’attuale inquilino del Cremlino sognava di essere un novello Ivan il Terribile ma il rischio che finisca per diventare un nuovo Nicola II diventa sempre più concreto. I grandi cervelloni che operano n ell’intelligence community occidentale hanno qualche idea al proposito?
Galliano Maria Speri
La foto di copertina è stata scattata da Roberto Stuckert Filho e ritrae l’incontro dei Paesi Brics a Brisbane, in Australia, il 15 novembre 2014. http://agenciabrasil.ebc.com.br/economia/foto/2014-11/reuniao-de-cupula-do-g20-em-brisbane-australia