Mentre il conteggio dei morti a Gaza si avvicina a 40.000 (al 25 giugno erano 37.658), il mondo si interroga sull’inettitudine degli Stati Uniti a limitare l’uccisione di civili innocenti che si configura come una serie ininterrotta di crimini di guerra. Siamo al punto più basso della credibilità democratica degli USA, ma non tutti gli americani sono pilateschi come Biden. Rachel Corrie era una studentessa americana di 23 anni che, nell’ambito delle sue ricerche universitarie, si recò a Gaza per garantire ai civili palestinesi un minimo di protezione usando mezzi non violenti. Fu schiacciata a morte da una ruspa blindata israeliana il 16 marzo 2003 e non ha mai ottenuto giustizia. Questo è un breve resoconto della sua storia.
Rachel era nata a Olympia nello Stato di Washington e, sin da giovanissima, aveva mostrato un grande interesse per le questioni sociali. Durante i suoi studi universitari era diventata una pacifista militante e aveva iniziato a collaborare con l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione non violenta in difesa della causa palestinese che si batte contro le occupazioni dell’esercito israeliano a Gaza e in Cisgiordania. Nel gennaio del 2003 va a Gaza come membro dell’ISM per fare da scudo umano e cercare di impedire la distruzione delle case palestinesi fatte dall’esercito israeliano che si serve di enormi ruspe blindate contro cui i civili non possono nulla. Molte organizzazioni umanitarie hanno definito quelle distruzioni come una “punizione collettiva”, mentre i portavoce dell’esercito avevano sostenuto che le abitazioni venivano utilizzate da cecchini per colpire i soldati israeliani.
La battaglia dei pacifisti
Quell’anno la situazione è molto calda perché è ancora in corso la “seconda intifada”, la violenta
protesta palestinese scoppiata nel settembre del 2000 dopo la provocatoria passeggiata del generale Ariel Sharon sulla spianata delle moschee a Gerusalemme. I pacifisti stranieri vivono in mezzo alla popolazione civile e indossano sempre grandi giubbotti da lavoro molto visibili. Hanno spesso megafoni con cui si rivolgono alle truppe di occupazione per limitarne la brutalità e si interpongono tra la popolazione e l’esercito, correndo enormi rischi personali. In una sua lettera alla famiglia del 7 febbraio 2003 Rachel scrive:
Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. Penso, sebbene non ne sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisca che la vita non è così in ogni angolo del mondo. Un bambino di otto anni è stato colpito e ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi qui e molti bambini mi sussurrano il suo nome – Alì – o indicano i manifesti che lo ritraggono sui muri.
In una lettera alla madre del 20 febbraio la giovane studentessa descrive la situazione in cui vive la popolazione locale:
adesso l’esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare a iscriversi all’università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall’altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere a una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.
La strategia degli attivisti è di limitare l’uso della violenza da parte dell’esercito di occupazione, contando sul fatto di avere la cittadinanza di un Paese occidentale e di essere facilmente riconoscibili. Rachel non è una militante ingenua che si illude di cambiare magicamente le cose ed è in grado di analizzare il contesto strategico in cui opera. Nella stessa lettera del 20 febbraio fa un preciso punto della situazione:
La striscia di Gaza è ora divisa in tre parti. C’è chi parla della “rioccupazione di Gaza”, ma dubito seriamente che stia per succedere questo, perché credo che in questo momento sarebbe una mossa geopoliticamente stupida da parte di Israele. Credo che dobbiamo aspettarci piuttosto un aumento delle piccole incursioni al di sotto del livello di attenzione dell’opinione pubblica internazionale, e forse il paventato “trasferimento di popolazione”. Per il momento non mi muovo da Rafah, non penso di partire per il nord. Mi sento ancora relativamente al sicuro e nell’eventualità di un’incursione più massiccia credo che, per quanto mi riguarda, il rischio più probabile sia l’arresto. Un’azione militare per rioccupare Gaza scatenerebbe una reazione molto più forte di quanto non facciano le strategie di Sharon basate sugli omicidi che interrompono i negoziati di pace e sull’accaparramento delle terre, strategie che al momento stanno servendo benissimo allo scopo di fondare colonie dappertutto, eliminando lentamente ma inesorabilmente ogni vera possibilità di autodeterminazione palestinese.
Come si evince dal testo, negli ultimi vent’anni la strategia di espulsione dei palestinesi dai loro territori non si è minimamente modificata anzi, con la presenza nell’attuale governo Netanyahu del partito dei coloni, ha subìto una drammatica accelerazione. Purtroppo, come verrà dimostrato dai fatti, il rischio corso dai pacifisti stranieri non era semplicemente quello di essere arrestati. La potentissima rete di influenza di Israele ha sempre soffocato sul nascere qualunque protesta a livello internazionale in difesa dei diritti della popolazione palestinese e per il rispetto dei più elementari diritti umani. Essere americana e bianca non è servito a molto a Rachel.
La morte
A Rafah, tornata oggi a essere tristemente nota, uno degli aspetti più tragici della guerra sono le demolizioni, realizzate da ruspe corazzate che spianano gli edifici e la vegetazione vicino al confine, lungo la strada che collega Gaza all’Egitto. Il 16 marzo 2003, insieme ad altri sei membri dell’ISM (tre britannici e tre americani), Rachel cerca di bloccare le operazioni di demolizione salendo sul mucchio di terra accumulato dalla ruspa. Rimane in piedi, una tecnica standard usata dagli attivisti, per mettersi sopra il livello della lama e farsi vedere chiaramente dal guidatore. Poi scivola e non riesce più a rialzarsi. La ruspa avanza e la lama la colpisce stritolandola. Secondo la versione ufficiale dell’esercito israeliano l’autista non l’avrebbe vista perché, a causa della caduta, era finita fuori dalla sua visuale. Ma secondo l’emittente britannica BBC, che ha raccolto prove filmate, Rachel Corrie è stata volutamente assassinata, insieme a due attivisti britannici.
Un militante presente sul luogo ha dichiarato al quotidiano israeliano Haaretz: «Non è possibile che il guidatore non l’abbia vista perché lei guardava proprio dentro la cabina. La ruspa continuava ad avanzare e lei è finita sotto la lama. La ruspa l’ha trascinata per 10-15 metri nonostante noi urlassimo come pazzi ai nostri megafoni. La ruspa ha continuato ad avanzare. Quando si è fermata, siamo corsi da Rachel. Respirava ancora». L’autopsia, condotta il 24 marzo all’Abu Kabir Forensic Institute di Tel Aviv, certificava che «la morte era stata causata da pressione sul torace (asfissia meccanica), con frattura delle costole, delle vertebre e della colonna vertebrale, con ferite profonde al polmone destro con conseguente emorragia delle cavità pleuriche».
Nell’agosto del 2013, nove anni dopo l’uccisione dell’attivista pacifista, un giudice di Haifa ha assolto lo Stato di Israele da ogni responsabilità nella sua morte o nel non aver condotto un’indagine accurata e approfondita. È stato perpetuato così il mito che la sua morte fosse stata un tragico incidente. Ma il giudice è andato anche oltre, affermando che poiché la ruspa operava all’interno di una “operazione di guerra”, nessun civile, palestinese o americano, aveva alcun diritto in quell’area, semplicemente perché non si sarebbe dovuto trovare lì. Per nove anni Cindy e Craig Corrie, i genitori di Rachel, avevano lottato per la ricerca della verità, in un processo in cui avevano chiesto al governo di Israele un risarcimento formale di 1 dollaro. Ma non hanno ottenuto nulla, anche perché lo Stato ebraico non ammetterà mai la brutale ferocia con cui colpisce tutti coloro che percepisce come nemici. Ma Rachel non era una terrorista; era una pacifista coerente che non si era limitata a gridare slogan sui diritti umani e aveva messo in gioco la sua vita per difenderli. Purtroppo, è stata stritolata dall’odio che satura i territori palestinesi.
Il compianto attore Alan Rickman e Katharine Viner, giornalista del britannico Guardian, hanno curato la realizzazione di uno spettacolo teatrale intitolato Il mio nome è Rachel Corrie, basato sui diari e sulle mail dell’attivista americana. La prima si è tenuta con successo al Royal Court Theatre di Londra nell’aprile del 2005 e ha vinto un premio come miglior regia, migliore opera nuova e anche migliore recitazione per l’attrice Megan Dodds. Ci sono state altre rappresentazioni al Festival di Galway in Irlanda e all’Edimburgh Festival Fringe. Nel marzo del 2006 lo spettacolo avrebbe dovuto esordire negli Stati Uniti al New York Theatre Workshop ma, a causa del suo contenuto politico, la direzione del teatro lo ha “rinviato indefinitivamente”.
Galliano Maria Speri
(La foto di copertina ritrae l’ingresso del teatro The Playhouse dove si è svolta la seconda stagione della produzione del dramma. La foto è di Kaihsu Tai che ne ha concesso l’uso)