Mentre Trump sta violentemente picconando l’ordine internazionale emerso dalla Seconda guerra mondiale, la Cina continua silenziosamente a mettere in atto la sua strategia a lungo termine per diventare la principale economia mondiale e soppiantare gli Stati Uniti. Il corollario di questa offensiva, dichiarata apertamente dal capo del Partito comunista cinese Xi Jinping, è un riarmo massiccio che sta riducendo sempre di più il divario con le forze armate degli USA. Pechino sta sfidando Washington non solo nei settori militari tradizionali ma anche nei campi più avanzati, come l’uso dell’Intelligenza artificiale a fini bellici. Stiamo quindi marciando verso un ineluttabile scontro militare? Non è detto, ma ci sono una serie di elementi fattuali su cui dobbiamo ragionare per capire la vera posta in gioco.

Nel maggio del 2017 Graham T. Allison, un politologo docente a Harvard, pubblicò un saggio intitolato Destined for War: Can America and China Escape Thucydides’s Trap? che rese molto popolare il termine “trappola di Tucidide” che indica la tendenza apparente verso la guerra quando una potenza emergente minaccia di spodestare la potenza egemonica a livello regionale o internazionale. Il gruppo di studio guidato da Allison aveva esaminato sedici casi storici in cui una potenza emergente aveva sfidato quella egemone e rilevato che in dodici casi la rivalità aveva portato alla guerra. Ma, a parte la popolarità raggiunta sui social, questa impostazione è stata fortemente criticata da studiosi e analisti, soprattutto quando viene messa in relazione a un potenziale conflitto militare tra Stati Uniti e Cina. Non è detto che l’unico esito di questa competizione sia obbligatoriamente la guerra, ma è innegabile che gli enormi progressi economici della Cina le hanno dato uno status globale e sarebbe veramente ingenuo pensare che Pechino non intenda sfruttare questa situazione a suo vantaggio.
La Grande strategia del dragone
Il Partito comunista cinese (PCC), sotto la guida di Mao Zedong, conquista il potere nel 1949, arrivando a controllare un Paese sconfinato ma povero e arretrato, con enormi carenze economiche e infrastrutturali. Tra il 1958 e il 1961, con la politica del “grande balzo in avanti”, Mao si ripropone di mobilitare la popolazione per riformare rapidamente il sistema economico, sognando in modo demagogico di trasformare un Paese agricolo in una potenza industriale. Ma la creazione di vaste comunità agricole e la pretesa di industrializzare la Cina con metodi ad alta intensità di lavoro, quasi senza macchinari e investimenti di capitali, porta al disastro. L’inefficienza delle comuni e il trasferimento massiccio dei lavoratori delle campagne verso le industrie fa crollare la produzione alimentare e causa gravissime carestie che portano alla morte per fame di circa 20 milioni di persone (ma alcuni storici parlano di cifre molto superiori).
Nel 1978, a due anni dalla morte di Mao, prende il potere il pragmatico Deng Xiaoping che elabora una strategia per una riforma economica che apra il Paese al mondo esterno, specialmente agli Stati Uniti e all’Occidente, anche in funzione antisovietica, visti i profondi dissidi ideologici che separano Mosca e Pechino. Avendo un disperato bisogno di investimenti stranieri, cambia anche l’atteggiamento verso tutte le istituzioni internazionali che non vengono più denunciate come strumenti del colonialismo imperialistico. La Cina aderisce alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale, al Trattato sulla non proliferazione nucleare, all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, al GATT e, infine, all’Organizzazione mondiale del commercio. Pechino entra anche nelle organizzazioni multilaterali asiatiche come l’APEC e l’ASEAN.
Deng Xiaping, una mente politica molto raffinata, si era reso immediatamente conto che la crescita cinese avrebbe sollevato molte preoccupazioni tra i suoi vicini per cui conia lo slogan “tao guang yang hui”, che significa grosso modo “rafforzati ma mantieni un basso profilo”. Questo indicava che la Cina non avrebbe puntato alla leadership regionale o globale, né avrebbe tentato di egemonizzare le istituzioni internazionali. La validità di questa politica viene riaffermata, ancora nel 2010, dall’alto funzionario Dai Bingguo, che in quel momento supervisionava la politica estera cinese. Ma con l’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2012 la politica del “fare ma non dire” viene messa in soffitta e, anche grazie alla stupefacente crescita economica, i discorsi ufficiali non fanno più mistero del fatto che la Cina aspira non solo a un ruolo globale ma intende diventare il centro dell’economia e della politica mondiale, soppiantando quindi il ruolo degli USA. Xi ha annunciato che per il 2049, anniversario del centenario della vittoria del PCC, Pechino dovrà tornare nel pieno possesso del suo territorio (e questo significa il controllo di Taiwan) e essere rispettata come principale potenza mondiale.
Oggi è più urgente che mai capire quali siano la strategia e le intenzioni della Cina. Washington

non è mai stato sfidato da un colosso di queste dimensioni. Per più di un secolo, nessun nemico o coalizione avversaria ha raggiunto il 60 per cento del Pil statunitense. Né la Germania guglielmina durante la Prima guerra mondiale, né la potenza combinata dell’Impero giapponese e della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Neppure l’Unione Sovietica, all’apice della sua potenza, ha mai superato questo limite. Eppure, questa soglia cruciale è stata valicata senza grossi strepiti già nel 2014. Calcolando la ricchezza nazionale sulla base dei prezzi di acquisto, la Cina supera già del 25 per cento il Pil degli Stati Uniti. Solo una minoranza di storici enfatizza il fatto che intorno al 1890 l’economia statunitense eguagliò quella dell’Impero britannico, ma è chiaro che da quella data in poi la storia aveva imboccato un’altra strada.
C’è un ampio dibattito tra gli accademici sull’esistenza o meno di una strategia della Cina per arrivare al dominio mondiale e molti studiosi negano che ci siano tentativi in tal senso. Tra coloro che denunciano le mire egemoniche di Pechino c’è Rush Doshi, autore, nell’agosto del 2021, di The long game. China’s grand strategy to displace American order. In questo saggio si analizza la strategia della Cina che, dopo il 2016, prende atto di un ritiro dell’Occidente dalle istituzioni internazionali che ha contribuito a creare e pensa di riempire il vuoto che ne deriva. Secondo Doshi, l’origine di questa svolta è la crescente potenza economica e militare cinese e la percezione di quella che appare come autodistruzione da parte dell’Occidente. «Il 23 giugno 2016 -scrive l’autore- il Regno Unito votò per uscire dall’Unione Europea. Dopo poco più di tre mesi, una campagna populista catapultò Donald Trump alla Casa Bianca. Secondo la prospettiva cinese -molto sensibile ai cambiamenti nella sua percezione del potere e della minaccia Americana- questi due eventi furono scioccanti. Pechino credette che le più potenti democrazie del mondo si stavano ritirando dall’ordine internazionale che avevano contribuito a creare e che si battevano per autogovernarsi all’interno dei propri confini. La risposta dell’Occidente al coronavirus nel 2020, e l’attacco al Campidoglio da parte di fanatici estremisti nel 2021, rinforzò la percezione che “il tempo e gli sviluppi attuali sono dalla nostra parte”, come disse Xi Jinping l’11 gennaio 2021».
Cina, centro del mondo
In mandarino la Cina si chiama zhōngguó (中国), Paese di mezzo, in altre parole, centro di ciò che esiste. Nel 2023, il noto sinologo Maurizio Scarpari ha pubblicato un approfondito saggio sull’argomento (La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, vedi la mia recensione https://www.nonsiamounisola.eu/2024/05/10/la-cina-vuole-tornare-al-centro-del-mondo-e-ci-sta-riuscendo/). Una delle argomentazioni del saggio è che nelle proprie relazioni con la Cina gli occidentali, accecati dai vantaggi a breve termine, hanno dimenticato che stavano trattando con un impero, nato nel 221 a.C., che riteneva di avere una superiorità culturale e morale verso i “barbari” (gli occidentali). Nel Sunzi bingfa, la più importante opera dell’antichità cinese dedicata all’arte della guerra (IV secolo a.C.) si afferma che la dissimulazione (gui) è la pratica essenziale del modus operandi di un abile stratega-comandante:
La guerra è arte della dissimulazione. Pertanto, cela la tua abilità mostrandoti inetto; sii pronto, ma mostrati impreparato e se sei vicino, dà l’impressione di stare lontano e viceversa. Se i tuoi nemici sono avidi di profitto, tentali; quando il disordine prevale tra i loro ranghi, soggiogali; se mostrano compattezza, predisponiti ad affrontarli; se sono troppo forti, evitali. Se sono iracondi, stuzzicali; se sono umili, alimentane la presunzione; quando le loro truppe sono riposate, sfiniscile; adoperati per sciogliere alleanze a te contrarie, attacca quando i tuoi nemici non sono pronti ed esci allo scoperto cogliendoli di sorpresa. Questi principi non vanno rivelati, poiché è da essi che dipende il successo dello stratega.
L’attualità di questo passo è sconcertante, sia che lo si legga in chiave strategico-militare sia che lo si intenda in termini di scelte politiche. Una superpotenza economica, politica e militare come la Cina finge di presentarsi al Sud del mondo come un Paese in via di sviluppo, vittima delle aggressive campagne di sfruttamento degli odiati colonialisti occidentali. Pechino afferma che la sua strategia è mutuamente vantaggiosa per i Paesi che accettano gli investimenti cinesi. La linea ufficiale è che la Cina è amante della pace e non si sognerebbe mai di usare mezzi militari per portare avanti i propri interessi. Parlando al Simposio internazionale su «Confucianesimo: pace e sviluppo del mondo», tenutosi a Pechino nel settembre del 2014, Xi Jinping disse: «Le idee pacifiste sono connaturate nel mondo spirituale della nazione cinese, e costituiscono ancor oggi la filosofia di base nel gestire le relazioni internazionali. […] La pace è importante per l’umanità quanto la luce del sole e l’aria». Questa retorica pacifista fa molta presa in Africa e in America Latina, anche se questo sbandierato rifiuto della forza militare è in netta contraddizione con il massiccio sostegno fornito da Pechino all’ invasione dell’Ucraina da parte del “grande amico” Putin (ma anche Xi non l’ha mai definita “guerra”).

Per secoli l’Impero cinese è stato una delle grandi potenze mondiali, fino a una lenta decadenza che l’ha prima isolato e poi impoverito progressivamente. Questo declino è culminato con il “secolo delle umiliazioni”, il periodo in cui la Cina era dominata economicamente e politicamente dalle potenze coloniali occidentali e dal Giappone. Il coriaceo nazionalismo cinese difende semplicemente la nozione di un ritorno alla posizione di centralità che la Cina ha avuto per secoli. Nel 2013 Xi lanciò il suo ambizioso piano denominato Belt and Road Initiative (BRI), meglio noto come “Nuova via della seta”, che consentì alla Cina di realizzare grandi progetti infrastrutturali che permisero a Pechino una radicata presenza in Asia, Africa (dove è il principale investitore), Europa e America Latina. Ad oggi, la BRI ha coinvolto 140 Paesi ma questo disegno strategico, che avrebbe dovuto portare ricchezza e sviluppo nel Sud del mondo, comincia a mostrare la corda perché aumenta la percezione che il generoso impegno di Pechino per lo sviluppo dei Paesi poveri si è rivelato come un potente strumento per esportare la sovrapproduzione cinese che non poteva essere collocata sul mercato interno.
Un problema aggiuntivo è stato l’esplosione dell’indebitamento di Paesi come lo Zambia o lo Sri Lanka, che si sono dichiarati incapaci di ripagare l’enorme debito contratto per realizzare progetti faraonici che non avevano però contribuito a innescare uno sviluppo locale. Di fronte alle richieste di rinegoziare un debito insostenibile, Pechino ha esplicitamente ammesso che la cooperazione deve essere intesa come subordinata agli interessi nazionali e, in effetti, è sempre stato così nella pratica: “l’equo vantaggio” si è rivelato costantemente sbilanciato a favore della Cina. Un altro fattore che ha fortemente ridotto l’interesse dei Paesi in via di sviluppo verso la BRI è l’impostazione dei lavori che non solo vengono messi a punto in Cina e utilizzano esclusivamente prodotti e tecnologia cinese, ma addirittura la manodopera è spesso cinese e quindi nonostante l’utilità delle infrastrutture realizzate, non c’è un impatto positivo sull’economia locale. Ma, in ogni caso, anche se tutti i lavori si bloccassero ora, la BRI ha consentito alla Cina di arrivare a controllare una rete globale di infrastrutture terrestri, marittime e tecnologiche che la collocano in una posizione di grande vantaggio strategico. (continua)
Galliano Maria Speri