L’incontro del G7 di Hiroshima, grazie all’impegno personale del premier giapponese Fumio Kishida, ha prodotto un documento ufficiale che, oltre al sostegno al presidente Zelensky e al monito alla Cina per la sua politica aggressiva nell’Indo-Pacifico, ribadisce l’impegno per il disarmo nucleare. Ma se le dichiarazioni di principio non si trasformeranno in linea politica operativa, rimarranno soltanto belle parole, proprio nel momento in cui in Ucraina non si vedono prospettive di negoziati e Putin continua a minacciare l’uso della bomba nucleare. Il Giappone e il suo ruolo per riaprire il discorso sulla riduzione delle armi atomiche.
“Sembrava come una abbacinante luce arancione, come la prima alba dell’anno”. Ricorda così quel 6 agosto 1945, alle 8 e 15 di mattina, Sadae Kasaoka, una bambina dodicenne quando la bomba fu sganciata su Hiroshima. Oggi ha 90 anni e i suoi ricordi sono vividi come allora. Tutta l’attenzione della stampa mondiale si è concentrata sulla guerra in Ucraina e sull’aggressività della politica cinese, ma pochi analisti si sono soffermati sul fatto che l’incontro del G7 del 19-21 maggio 2023 non avveniva in una cittadina qualsiasi ma a Hiroshima, scelta appositamente dal premier Kishida, originario proprio di questa città, per rilanciare l’iniziativa per il disarmo nucleare. Il ritorno della guerra in Europa è un evento drammatico e sconvolgente, ma non si può smettere di pensare e di elaborare una strategia per il futuro e, soprattutto, non possiamo far finta che le armi atomiche non rappresentino più un pericolo.
È avvenuto, quindi può accadere di nuovo
Questo è quello che ci ricorda Primo Levi, in una delle ultime pagine de I sommersi e i salvati. Gli arsenali nucleari odierni, che sono sempre lì dove erano prima, possono distruggere più volte il mondo intero eppure l’opinione pubblica sembra assorbita da altri interessi e preoccupazioni e fa finta che siano magicamente scomparsi. Si dà per scontato che le armi nucleari non verranno mai usate, ignorando completamente il fatto che il manuale strategico dell’esercito russo ne preveda l’uso (e non ritengo che i generali USA non abbiano preso in considerazione l’ipotesi). Proprio il conflitto in corso rende ancora più urgente che il disarmo nucleare torni al centro del dibattito internazionale, che Stati Uniti e Russia tornino a dialogare sul tema e che, insieme, coinvolgano la Cina, in possesso di un arsenale nucleare, più ridotto ma sempre infinitamente pericoloso.
Tra i politici internazionali, il premier nipponico è l’unico che capisce appieno l’importanza cruciale di nuovi accordi per la limitazione degli armamenti nucleari e, come presidente di turno del G7, cercherà di rimettere in moto il processo. A fine aprile 2023, sei parlamentari di Italia, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone hanno inviato un messaggio da Hiroshima su invito dell’ICAN (la Campagna internazionale per abolire le armi nucleari). I parlamentari hanno poi incontrato alcuni hibakusha (i sopravvissuti dalla bomba atomica) e hanno preso l’impegno di sollecitare azioni concrete sul disarmo nucleare. È certamente significativo che il 19 maggio il vertice del G7 si sia aperto con una visita di tutti i capi di Stato e di governo al Museo memoriale della pace di Hiroshima. Biden è il secondo presidente degli Stati Uniti a visitarlo (prima di lui c’era stato soltanto Barak Obama).
Nel suo discorso Kishida ha fatto un richiamo alla responsabilità dei leader globali. “Noi leader abbiamo due responsabilità. La prima è fondamentale: in una situazione in cui la sicurezza e la stabilità vengano messe in pericolo, dobbiamo proteggere la sicurezza delle persone. Contemporaneamente, abbiamo la responsabilità di non perdere di vista l’obiettivo di un mondo senza armi nucleari, di continuare a chiedere un mondo senza armi nucleari“, ha affermato il premier nipponico. “Oggi ci troviamo di fronte al tema dell’invasione russa dell’Ucraina. Proprio in questo contesto di sicurezza così critico, dobbiamo mostrare al mondo da qui una forte volontà di pace e stabilità. Questo è il tema che, come presidente del G7, il Giappone ha posto a questo summit“, ha detto ancora Kishida, segnalando come i leader del G7 abbiano concordato su una visione che prevede l’impossibilità di combattere una guerra nucleare. Il documento finale saluta positivamente l’Hiroshima Action Plan, il piano per il disarmo nucleare messo a punto dal Giappone, destinato però a rimanere nel limbo delle buone intenzioni se non verranno elaborate strategie praticabili.
L’Action Plan redatto da Kishida è basato su cinque elementi: fare un salto di qualità sulla trasparenza degli armamenti nucleari, ridurre gli arsenali, garantire la non proliferazione, favorire l’uso pacifico dell’energia nucleare e continuare a non usare armamenti atomici. Il problema della dichiarazione finale è che non contiene accordi vincolanti che impongano agli Stati appartenenti al G7 con armamenti nucleari (USA, Regno Unito, Francia) di ridurre il proprio arsenale o limitare il dispiegamento delle testate in Paesi terzi. Per questa ragione l’ICAN ha emesso un comunicato fortemente critico sul testo della risoluzione. Il G7, si legge nel documento, “non è riuscito a elaborare proposte concrete per fare passi avanti nel raggiungere l’obiettivo dichiarato di un mondo senza armamenti nucleari”. Sempre secondo l’ICAN “si tratta di un rimaneggiamento di vecchie misure di non proliferazione” che non riflettono l’urgenza del momento e non sono abbastanza incisive, soprattutto alla luce della situazione ucraina.
I dati sulle armi
Il 7 luglio 2017, sotto l’egida delle Nazioni Unite e grazie alla decennale campagna dell’ICAN (ricordiamolo, è l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), 122 Stati hanno adottato uno storico accordo globale per la messa al bando delle armi nucleari, noto ufficialmente come TPNW (Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari). Dal 22 gennaio 2021 il TPNW è entrato in vigore, dopo che si è superato il traguardo delle firme di 50 Paesi, ribadendo quindi che il disarmo nucleare è uno degli obiettivi principali dell’ONU. Le nazioni che possiedono armamenti nucleari sono: Russia (5977 testate), Stati Uniti (5428 testate), Cina (350 testate), Francia (290 testate), Regno Unito (225 testate), Pakistan (165 testate), India (160 testate), Israele (90 testate), Corea del Nord (20 testate). Nessuno di questi Paesi ha firmato il TPNW. Oltre che sul suo territorio e su sommergibili che navigano sotto gli oceani (come fanno anche Russia e Cina), gli Stati Uniti hanno posizionato missili nucleari in Turchia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Belgio. La Russia ha invece dispiegato armi nucleari in Bielorussia e, dopo l’invasione dell’Ucraina, le ha spostate vicino al confine con la Polonia, minacciata anche dai missili stanziati nell’exclave russa di Kaliningrad, incastrata tra la Lituania a nord e la Polonia a sud.
Il TPNW proibisce specificamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, il trasferimento, la minaccia di usare, lo stazionamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. Il Trattato rende illegale per i Paesi che lo firmano permettere qualsiasi violazione nella loro giurisdizione o assistere, incoraggiare o indurre qualcuno a impegnarsi in una di queste attività. Il Trattato rafforza la norma contro le armi nucleari come primo strumento legale per vietarle. Certo, i sostenitori della più bieca realpolitik snoccioleranno le infinite occasioni in cui le delibere dell’UNU sono rimaste lettera morta, e basti pensare semplicemente alle decine di mozioni di condanna contro Israele per la sua occupazione illegale di territori palestinesi. Ma qui non si tratta semplicemente della preoccupazione di poche “anime belle”. La differenza sostanziale con il passato, dal secondo dopoguerra in poi, è che oggi c’è una guerra in Europa che vede costantemente innalzarsi il livello dello scontro tra Russia e NATO, la Cina ha militarizzato il Mar cinese meridionale e ha iniziato a violare su base regolare lo spazio aereo di Taiwan, superando costantemente quella che la Casa Bianca ha ripetutamente definito una “linea rossa”. A questo dobbiamo aggiungere l’intenzione del Cremlino di dispiegare ordigni nucleari tattici in Bielorussia.
L’arsenale nucleare della Terra di mezzo
Gli Stati Uniti sono sempre più preoccupati della crescita dell’arsenale atomico di Pechino. Anche se la Cina non rivela ufficialmente il numero, la collocazione o lo stato di allerta del suo armamento nucleare, l’ultimo rapporto del Pentagono dedicato all’argomento valuta che il Dragone possieda oltre 400 testate operative (un numero superiore alle 350 stimato da altre istituzioni), aggiungendo che per il 2035 potrebbero arrivare a 1500, nel caso continuasse il ritmo attuale. Come è suo solito, la Cina sta portando avanti un massiccio programma di riarmo e di espansione militare facendo finta di nulla e tuonando contro la “mentalità da guerra fredda” degli Stati Uniti. Il 20 maggio 2023, Zhou Bo, un ex colonnello dell’Esercito di liberazione popolare cinese, ha dichiarato al Japan Times che le armi nucleari di Pechino sono poca cosa, se paragonate a quelle di Mosca e Washington e ha ribadito che la Cina sta semplicemente modernizzando il suo arsenale, insieme a tutte le sue forze armate.
Zhou Bo, attualmente membro anziano del Center for International Security and Strategy dell’importante Università Tsinghua di Pechino, ha spiegato che finora Pechino ha rifiutato gli inviti americani a partecipare alle discussioni multilaterali sul disarmo nucleare perché Stati Uniti e Russia hanno armamenti enormemente superiori a quelli cinesi. “Se volete che questo accada, la Cina dovrebbe aumentare le sue testate nucleari al livello di quelle degli Stati Uniti e della Russia, oppure gli Stati Uniti e la Russia dovrebbero ridurre i loro arsenali nucleari al livello di quelli cinesi”, ha dichiarato il colonnello. Zhou Bo sembra sicuro che, per la dinamica degli eventi bellici in corso, l’ipotesi che le due superpotenze nucleari adeguino i loro arsenali alle dimensioni di quelli cinesi sia un’ipotesi totalmente irreale e quindi Pechino ha le mani libere per continuare allegramente la sua politica di riarmo. Certo, se prendiamo in considerazione le quasi 6000 testate di Mosca, le 400 cinesi sembrano un’inezia, ma quale stratega militare oserebbe sostenere che si può sfidare impunemente una potenza che possieda “soltanto” molte centinaia di testate nucleari?
Ci sono alternative alla guerra?
Quando, il 21 settembre del 2022, Putin annunciò una mobilitazione “parziale” delle forze armate
russe sottolineò volutamente il concetto che “per difendere il Paese useremo tutti i mezzi a disposizione”, con chiaro riferimento all’arma nucleare. Da allora, le sue minacce sono state ripetute molte altre volte, spesso anche da Dmitrij Medvedev, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo. Sicuramente in queste affermazioni c’è una cospicua componente di guerra psicologica e il tentativo di intimorire le forze che sostengono l’Ucraina, ma è proprio l’andamento disastroso dell’invasione che deve preoccupare l’Occidente. In Russia non sta emergendo una protesta popolare contro la guerra, gli oppositori democratici sono morti, all’estero o in galera. Si sta invece rafforzando un gruppo di nazionalisti che criticano il Cremlino da destra e accusano Putin di debolezza e indecisione nel condurre le operazioni militari. Il portavoce di questa fazione è Evgenij Prigozhin, il fondatore del famigerato gruppo di mercenari Wagner che con feroce autoironia non disdegna l’appellativo di “macellaio di Putin”.
I teorici della vittoria militare sulla Russia dovrebbero prendere in considerazione l’ipotesi, per ora improbabile ma certo non campata per aria, che potrebbero ritrovarsi di fronte qualche signore della guerra che riuscisse a impadronirsi di ordigni nucleari. Sia l’intervento in Siria che l’aggressione all’Ucraina hanno dimostrato che la vera strategia militare di Mosca è riassunta da un brutale “ammazziamoli tutti”. Bombardamenti massicci, uccisioni indiscriminate, distruzione delle infrastrutture civili, sono i metodi usati da un esercito mal preparato, mal addestrato, mal equipaggiato che ricorre costantemente a una violenza cieca come modus operandi standard.
All’inizio di questo millennio, e sulla scia dell’orrore causato dall’11 settembre 2001, un gruppo di fanatici che si definivano “neoconservatives” prese il potere alla Casa Bianca e convinse il mondo che era arrivato il momento di imporre la democrazia a livello globale, con tutti i mezzi. I neocons irrisero gli europei, chiamandoli “figli di Venere” mentre i supermachos americani provenivano dal pianeta Marte. Le terribili scene di disperazione che si sono viste all’aeroporto di Kabul nell’agosto del 2021 hanno apposto il sigillo dell’infamia a quella sciagurata politica. Ma era già successo in Vietnam, in Libano, in Somalia, senza considerare che, dopo il disastro iracheno, gli Stati Uniti hanno ormai una presenza solo nominale in Medio Oriente. Un rapporto, messo a punto dallo U.S. Special Operations Command pubblicato nel settembre 2015 e intitolato A Century of War and Gray Zone Challanges, riferisce che nell’ultimo secolo gli Stati Uniti sono stati coinvolti in 64 guerre, grandi e piccole, riuscendo a non uscirne sconfitti solo in 43 casi. Meno del 20 per cento dei conflitti sono stati vinti. Eppure, anche in Europa c’è un’isteria montante di riarmo che rifiuta di prendere in considerazione qualsiasi altra ipotesi che non sia la vittoria sul campo.
Per ora Joe Biden è entrato negli annali come il più anziano leader a essere eletto alla presidenza e, realisticamente, ha scarse probabilità di essere ricordato per molto altro. Eppure, questo periodo di grande turbolenza che, in pochi anni, ha visto l’erompere dell’emergenza climatica, la crisi della globalizzazione, lo scoppio di una pandemia e il ritorno della guerra in Europa avrebbe bisogno di un colpo d’ala e di una visione di un futuro diverso. Finora, sia gli americani che gli europei si sono comportati come i “sonnambuli”, nella felice definizione dello storico Christopher Clark, che marciarono come un gregge al macello verso la Prima guerra mondiale. Un colpo di genio sarebbe quello di chiamare il bluff cinese e annunciare che gli Stati Uniti accettano di ridurre il numero delle proprie testate al livello di quelle di Pechino, chiedendo contemporaneamente a Mosca di fare altrettanto. Questo cambierebbe certamente le carte in tavola per l’Ucraina e potrebbe aprire le porte a un potenziale negoziato. Nel linguaggio occidentale è entrato il termine giapponese hikikomori, che definisce quei giovani che si ritirano dalla vita sociale, rinchiudendosi nel loro piccolo mondo e non uscendo più di casa. Ci auguriamo che l’altra, terribile parola giapponese, hibakusha, rimanga confinata per sempre alla storia tragica delle bombe su Hiroshima e Nagasaki.
Galliano Maria Speri
(La foto di copertina riproduce la nube radioattiva sopra la città di Nagasaki)