Dopo i massacri del 7 ottobre 2023 a opera di Hamas, Io Stato ebraico ha scatenato una guerra contro Gaza che ha assassinato militanti e bambini, terroristi e vecchi inermi, bombardato covi islamisti e scuole, armamenti e ospedali con una furia inumana e distruttiva che richiama alla mente i periodi più bui della storia umana. È ora in vigore una fragile tregua ma non esiste nessuna prospettiva per una soluzione giusta e duratura per cui gli orrori appena trascorsi potrebbero ripetersi per l’ennesima volta. Dobbiamo avere il coraggio di guardare questa realtà in faccia e, prima di schierarci o scandalizzarci, dobbiamo capire le ragioni di ciò che è accaduto. Un breve saggio di un’autorevole studiosa ci aiuta nell’impresa.
Oggi è il “Giorno della memoria” che ricorda il momento in cui, ottanta anni fa, l’Armata rossa varcò sgomenta i cancelli di Auschwitz e si trovò di fronte all’orrore della Shoah. Il modo più cinico e crudele di commemorare questa data sarebbe quello di ignorare che la lezione più importante che possiamo trarre da quell’evento è che quelle atrocità non devono più ripetersi, contro nessun essere umano. Nel suo saggio la storica Anna Foa, nata in un’importante famiglia antifascista e influente storica dell’ebraismo, ci ricorda come «la Shoah debba essere un insegnamento e un monito per tutti i genocidi, che questo non debba succedere più a nessuno, non ai soli ebrei». La politica di annichilimento messa in atto dal premier Netanyahu a Gaza, sommata alle dichiarazioni apertamente razziste di quei membri del governo che pensano di risolvere la questione palestinese con le uccisioni e le espulsioni di massa, dimostrano che proprio il governo israeliano non tiene in nessun conto la tragica lezione della Shoah.
Israele come era e come è
Il lungo e sfaccettato processo che ha portato alla nascita dello Stato ebraico nel 1948 è certamente noto e studiato, ma Anna Foa lo arricchisce con notazioni specifiche che aiutano a comprendere meglio una genesi molto articolata. Oltre alla precisione della studiosa e alla sua capacità di cogliere con poche parole i processi storici, l’autrice compie delle riflessioni che mostrano un grande coraggio personale e una notevole dirittura morale, senza nascondersi dietro l’appoggio incondizionato a Israele, a prescindere dalle politiche messe in atto. Secondo Foa il sionismo rappresentò una vera e propria rivoluzione e comportò «uno stacco netto con il passato e con la tradizione, ma anche una rottura all’interno del mondo ebraico, una ridefinizione della sua identità». Ma data la complessità del fenomeno, è più corretto parlare di “sionismi”, piuttosto che di un fenomeno unitario, tanto che non c’è nemmeno accordo sulla sua data di nascita.
I primi sionisti, il cui scopo era soprattutto quello di salvare gli ebrei dall’antisemitismo, non erano concentrati sulla Palestina ma erano disposti a prendere in considerazioni soluzioni alternative, come l’Argentina o l’Uganda, accettando una proposta dell’Impero britannico. Furono i delegati russi, che avevano una visione più “culturale” del sionismo, che fecero cadere la scelta sulla Terra di Israele, anche se erano ben coscienti che quelle aree erano già abitate da una popolazione che era musulmana per oltre il 90 per cento. Inizialmente, però, si riteneva che la convivenza con gli arabi fosse possibile e si lavorava alla nascita di uno Stato binazionale, con ebrei e arabi. Ma nel 1936 ci fu una rivolta araba contro i britannici e gli insediamenti degli ebrei e questo cambiò l’iniziale ottimismo su una convivenza pacifica con gli abitanti autoctoni della Palestina.
I cosiddetti revisionisti, guidati dal russo Vladimir Zeev Jabotinsky, erano invece decisi a usare la
forza nei confronti degli arabi per imporre loro il progetto sionista. Jabotinsky, una figura carismatica e non priva di contraddizioni, «aveva derivato dalla sua ammirazione per il Risorgimento italiano e poi per il fascismo di Mussolini un’ideologia fondata sulla nazione e sul culto della forza. Nel 1941 riteneva che bisognasse alzare contro gli arabi un “muro di ferro” e riteneva che gli arabi non avrebbero accettato senza imposizioni la presenza della colonizzazione sionista». Come si vede, una metodologia operativa identica a quella usata da tempo dai coloni ebrei nei territori occupati. Non è certo casuale che l’operazione “antiterroristica” che colpisce i campi profughi in Cisgiordania, in corso mentre scriviamo, sia stata chiamata proprio “muro di ferro”.
Secondo la storica, la natura di Israele inizia a cambiare dopo la nascita dello Stato nel 1948 e, soprattutto, dopo la vittoriosa guerra del 1967 in cui, oltre a sbaragliare gli eserciti nemici, le truppe con la stella di Davide conquistano vaste aree prima sotto il dominio arabo. L’essersi trasformati da eroici combattenti per la propria sopravvivenza in forze di occupazione che ricorrono alla brutalità militare per mantenere il controllo, ebbe un impatto indelebile sullo Stato ebraico. Tra i contrari all’occupazione c’era il filosofo Yeshayahu Leibowitz, personaggio di rilievo molto amato ma anche moto avversato, che era definito “la coscienza di Israele”. «Leibowitz negava ogni diritto divino degli ebrei alla terra di Israele e sosteneva che l’occupazione avrebbe avvelenato l’animo degli israeliani trasformandoli in “giudeo-nazisti”. Tornava il paragone coi nazisti, già fatto nel 1956 dalla stampa israeliana a proposito dell’eccidio di Kfar Kassem».
Che fare?
Nel 1956, allo scoppio della campagna del Sinai, 49 abitanti del villaggio di Kfar Kassem che tornavano a casa senza sapere dell’inizio delle ostilità, furono massacrati dall’esercito israeliano. I bombardamenti a Gaza hanno ucciso decine di migliaia di civili (le vittime sono in maggioranza schiacciante donne e bambini) ma non si leggono denunce scandalizzate sulla stampa di Tel Aviv. Foa riferisce che una parte della società israeliana reagisce e chiede la fine delle ostilità, la liberazione degli ostaggi e le dimissioni del governo. «Ci sono militari che rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere in questa guerra». Ma, nonostante questo, «la trasformazione di Israele in un paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei Territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano, non senza conseguenze sulla società tutta».
Il 29 dicembre 2023 il Sudafrica aveva denunciato Israele alla Corte di giustizia internazionale dell’Aja come autore di un genocidio. Questo aveva poi portato all’emissione di un mandato di arresto internazionale contro Netanyahu ma anche contro i leader di Hamas. Una parte dell’opinione pubblica mondiale ha reagito agli orrori di Gaza, ci sono state molte dimostrazioni studentesche che chiedevano la fine dei bombardamenti anche se, a volte, hanno usato un linguaggio che sconfinava nel razzismo. L’autrice mette in evidenza che, oltre a una crescente ondata di antisemitismo, si assiste a fenomeni preoccupanti come il fatto che il movimento delle donne in Italia “dimentichi” gli stupri del 7 ottobre, oppure che le manifestazioni del gay pride a Roma emarginino i movimenti LGBTQ ebraici, costringendoli a non partecipare o ”dimentichino” ancora una volta gli omosessuali impiccati da Hamas a Gaza. La colpa non è certo solo dell’antisemitismo, o dell’ignoranza o del fanatismo dell’estrema sinistra ma «del comportamento dello Stato di Israele e del suo governo dopo il 7 ottobre, dei morti innocenti causati dalla guerra di Gaza, dei proclami di pulizia etnica fatti dai ministri di quel governo, che risuonano sinistri alle orecchie del mondo».
La studiosa ritiene che l’atteggiamento del governo israeliano, che bolla immediatamente come antisemitismo qualunque critica gli venga rivolta, contribuisca, al contrario, ad alimentare l’insofferenza e il razzismo verso gli ebrei. Loda invece il documento firmato il 7 maggio 2024 da illustri personalità israeliane come Avraham Burg o Eli Barnavi, ex ambasciatore in Francia, che hanno applaudito la decisione di Spagna, Irlanda e Slovenia di riconoscere la Palestina. Questa è la via da percorrere perché «il percorso di Israele appare sempre più come un vero e proprio suicidio. L’escalation del governo israeliano non si ferma e aggiunge ogni giorno nuove dichiarazioni provocatorie dei suoi ministri. Israele restituisce colpo su colpo. Ma è davvero questa la strategia vincente?». Dopo aver auspicato che il governo Netanyahu paghi non solo per quello che ha fatto a Gaza ma anche per quello che questa politica ha comportato per Israele, Foa conclude affermando: «Gli israeliani dovranno trattare con Hamas, colpevole della terribile strage del 7 ottobre, ma i palestinesi dovranno trattare con chi è colpevole di aver distrutto le loro case e ucciso le loro famiglie. Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade che questa».
Anna Foa
Il suicidio di Israele
Laterza, pp. 96, euro 15
Galliano Maria Speri