L’Asia è lo specchio del nostro futuro?

Il nuovo millennio ha visto l’accelerazione di fenomeni epocali che hanno oggettivamente contribuito a spostare verso Oriente il baricentro economico e demografico del mondo. L’Europa è diventata letteralmente un “vecchio continente”, mentre l’Asia (che non è solo Cina e India) mostra una vitalità e una capacità di rinnovamento che le stanno spalancando le porte del futuro. Un saggio, informato e libero da schemi prefissati, ci aiuta a decifrare una realtà in evoluzione che continuiamo a osservare con preconcetti ormai superati e idee che non reggono più il passo con i tempi.

Simone Pieranni è un giornalista che ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014 dove ha fondato China Files e ha dedicato diversi libri al Paese del dragone. Questo suo ultimo lavoro vuole fornire al lettore occidentale un vero e proprio quadro di insieme che spazia dall’ordinata Singapore al Myanmar dei militari e alla Malaysia, dal Vietnam in pieno boom alla Cambogia, dalla Cina all’India, al Giappone, e ancora, tra gli altri Paesi, alle Filippine, a Taiwan e alle due Coree. Il quadro che ci viene offerto rappresenta un’analisi approfondita su un continente che, tra conflitti sociali, novità tecnologiche e tendenze culturali, ci aiuta a immaginare il futuro che ci aspetta. Per trarne esempi, spunti, soluzioni. O semplicemente evitare di ripeterne gli errori.

Go East, young man

 Per secoli la civiltà europea è stata il centro del mondo, ma è ora necessario prendere atto che non è più così e che nello scenario globale agisce una pluralità di nuovi attori con cui è necessario interagire ma, per poterlo fare in modo fruttuoso, dobbiamo conoscerli. Un esempio lampante della differenza delle dinamiche socio-economiche dell’Asia rispetto al resto del mondo è rappresentato dalla crisi esplosa nel 2008 nel mercato dei prestiti subprime statunitensi, subito allargatasi all’Europa e che non è ancora stata superata pienamente. Mentre in Occidente cresceva la precarietà e l’incertezza per il futuro, miliardi di giovani asiatici conoscevano stabilità geopolitica, prosperità economica e crescente orgoglio nazionale. «Il loro mondo -scrive Pieranni- non è quello occidentale in crisi, ma quello dell’ascesa asiatica. L’emblema è la Cina, ma dietro Pechino c’è un universo che brulica, che propone soluzioni a tanti dilemmi e che guarda al futuro». L’autore ci raccomanda di ascoltare con molta attenzione quello che gli asiatici hanno da dirci e, soprattutto, di non identificare le popolazioni con i rispettivi governi.

Data la rilevanza economica e geopolitica dell’Asia, le soluzioni alle tematiche attualmente al centro dell’attenzione globale si rifletteranno anche sulla nostra realtà. «Cosa mangeremo in futuro? Come garantire sostenibilità e vivibilità alle nostre città? In che modo si evolvono i diritti, le idee sulla famiglia, sulla convivenza, o in che modo quei diritti svaniscono, vacillano o sono eliminati? E ancora: come si affrontano in Asia argomenti quali il lavoro, l’informazione, la sorveglianza, l’intelligenza artificiale? Sullo sfondo di tutto questo c’è il tema del cambiamento climatico, di cui parla l’intero pianeta e che in Asia è una priorità». L’inverno demografico che ha colpito i Paesi sviluppati è arrivato anche in Asia. Qui gli unici stati dove ancora si fanno figli sono l’India, le Filippine, il Laos e il Myanmar. Nel resto del continente la drastica diminuzione delle nascite è la regola. Il caso più drammatico è la Corea del Sud dove il tasso di natalità è sceso al minimo storico e, entro il 2100, la popolazione potrebbe dimezzarsi. Tutte le politiche per invertire questa tendenza si sono rivelate fallimentari. Un aspetto collegato sono le enormi pressioni sociali che vengono fatte sui coreani per raggiungere il successo. Questo si è tradotto in 26 suicidi su 100mila persone, il tasso più alto all’interno dell’Ocse.

Anche il Giappone ha un gravissimo problema di calo demografico (gli ultrasessantacinquenni rappresentano il 34,8 per cento della popolazione) e questo ha costretto Tokyo a riconsiderare la sua tradizionale chiusura agli immigrati. Asia Nikkei Review, una delle riviste economiche più importanti di tutta l’Asia, nel marzo 2023 ha raccontato che se il Giappone accettasse un milione di immigrati all’anno «potrebbe compensare in pieno il declino naturale della sua popolazione a causa delle morti, che ora corrono a un ritmo quasi doppio rispetto a quello delle nascite». L’imprenditore Hisao Tateishi ha riferito alla stessa rivista che «un tempo l’immigrazione veniva associata ai poveri che si spostavano verso luoghi più ricchi in cerca di migliori opportunità. Ma le risorse umane stanno diventando sempre più preziose in tutto il mondo e i paesi sono già in competizione tra loro per attrarre determinati tipi di immigrati». Tokyo ha introdotto un nuovo programma di visti e, in pochi anni, il numero di lavoratori stranieri è raddoppiato.

Il Giappone ha ben compreso la necessità di aprirsi ai lavoratori stranieri, l’Italia ancora no. Migranti respinti al confine italo-francese sono accolti dalla Caritas locale nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia. (Foto Stefano Schirato/Caritas Ambrosiana)

Il Giappone ha inoltre provato ad adattarsi a una tendenza asiatica piuttosto in voga, quella dei visti per i nomadi digitali, i lavoratori itineranti a cui bastano un computer e una connessione per portare a termine i propri progetti. Secondo un sondaggio del 2023 (riportato dalla BBC) i nomadi digitali contribuirebbero all’economia globale con circa 800 miliardi di dollari. Denaro che solitamente finiva in Spagna e Portogallo, i due Paesi più attrattivi per questa categoria di lavoratori globali. Pieranni rileva che negli ultimi anni si è però notato un movimento dei nomadi digitali dalla Spagna e dal Portogallo verso il Sudest asiatico. La Thailandia ha da tempo iniziato una politica per attrarre questa categoria superspecializzata, seguita ben presto dalla Malaysia e dalla Corea del Sud.

Tecnologia e controllo della popolazione

La Cina è notoriamente il Paese che usa le tecnologie più sofisticate per monitorare la vita privata dei suoi cittadini ma è tallonata da vicino dal Vietnam. Dal 1997, quando la giapponese Honda aprì lì il suo primo stabilimento, il Vietnam ha fatto passi da gigante, fino a stringere un accordo di “partenariato strategico” durante la visita del presidente USA Joe Biden nell’autunno del 2023. Un viaggio svoltosi in contemporanea con quello del premier vietnamita a San Francisco, in California, per prendere accordi con alcune aziende della Silicon Valley, tra cui Microsoft, Meta e SpaceX. Ma lo sviluppo industriale non è  certo coinciso con una liberalizzazione della società, tenuta saldamente in pugno dal Partito Comunista del Vietnam. Dopo quelle cinesi, Ho Chi Minh City (un tempo chiamata Saigon) è oggi la città che ha installato il maggior numero di telecamere di sorveglianza. Il sistema di controllo pubblico della città è stato introdotto nel 2016, quando è stata annunciata la realizzazione della prima rete di telecamere dotate di intelligenza artificiale, e di centri di monitoraggio per prevenire i crimini e mantenere l’ordine pubblico.

Un altro strumento nelle mani del Partito comunista è la popolare applicazione Zalo, usata da 60 milioni di vietnamiti (su una popolazione di 98 milioni). Zalo ha stretti legami con il governo e non fa nessuno sforzo per nasconderli. In Vietnam c’è una legge che obbliga l’app a fornire, su richiesta governativa, i dati degli utenti. Questo consente alle autorità di favorire la nascita di “campioni nazionali”, imprese che grazie agli stretti collegamenti con il governo e alla massa enorme di dati a cui hanno accesso, possono sviluppare tecnologie avanzate. Anche se si proclama la “più grande democrazia del mondo” l’India è al 161° posto come libertà di stampa. Il governo del nazionalista indù Modi, con la collaborazione del Giappone, ha messo a punto Aadhaar, il sistema di identificazione biometrica più sofisticato al mondo, in modo da aumentare ulteriormente il controllo sui cittadini. «In pratica questo raffinato sistema è incentrato su un numero identificativo personale di 12 cifre, collegato alle impronte digitali e alla scansione dell’iride dell’utente. Come una specie di tessera sanitaria, ma con alcuni elementi di riconoscimento individuale in più».

Manichino che mostra l’interfaccia neuronale per collegare il cervello a un computer (Foto di Paul Wicks)

Ma forse la frontiere tecnologica più avanzata, e probabile campo di scontro tra Cina e USA, è la BCI (Brain-computer interface), un interfaccia neurale che rappresenta un mezzo di comunicazione diretto tra un cervello e un computer esterno. Nel febbraio del 2024 Elon Musk ha annunciato che per la prima volta un microchip, il Telepathy, prodotto dalla sua azienda Neuralink, era stato inserito nel cervello di un essere umano. Spulciando su Baidu, il principale motore di ricerca cinese, Pieranni scopre che un intervento chirurgico del genere, per quanto con un impianto meno invasivo e con caratteristiche differenti, era già stato effettuato in Cina nell’ottobre 2023. La ragione della scarsa enfasi data da Pechino all’evento dipende dal ritardo di 5-10 anni in quel settore, come ammettono gli stessi scienziati cinesi. Ovviamente, questi esperimenti vengono sbandierati dalla propaganda come una panacea che consente il recupero delle capacità  motorie a persone che, per varie ragioni, le avevano perse. Ma l’autore ricorda  che «quando si parla di “leggere la mente”, “collegare il pensiero a un computer», i governi pensano solo a certi particolari settori: il comparto securitario e quello militare, con la possibilità di dotarsi di strumenti innovativi, sempre più avanzati e potenzialmente letali, per condurre una guerra».

Un esempio di commistione tra tecnologia e scopi bellici riportato nel saggio è l’uso dell’Intelligenza artificiale nei conflitti. Nel luglio 2019, l’Esercito popolare di liberazione cinese ha redatto un Libro bianco in cui si affermava che «la guerra si sta evolvendo verso un conflitto informatizzato, e una guerra intelligentizzata [intelligentized warfare] è all’orizzonte». Sui siti cinesi di argomento militare se ne discute da tempo e la “intelligentized warfare” è spiegata come «una guerra integrata condotta via terra, mare, aria, spazio, arene elettromagnetiche, informatiche e cognitive utilizzando armi e attrezzature intelligenti e i metodi operativi associati». Le caratteristiche della “guerra intelligente” descritte dai militari cinesi si concentrano su alcuni aspetti: il miglioramento delle capacità di elaborazione delle informazioni, il rapido processo decisionale tramite l’intelligenza artificiale, il fatto che il dominio cognitivo diventerà a breve il campo di battaglia più importante dopo lo spazio fisico e informativo. In pratica, significa che in una eventuale guerra, l’esercito cinese potrà usare l’intelligenza artificiale per uno scopo del tutto nuovo: influenzare direttamente l’ambito cognitivo del nemico.

Questa strategia è stata sistematizzata da Pang Hongliang, uno studioso cinese docente presso l’Università della Difesa Nazionale dell’esercito cinese e tra i primi accademici a parlare di “intelligentized warfare”. Pang è considerato un pioniere in questo campo, perché parla di tali temi fin dal 2004. Per Pang – e dal 2019 anche per il suo governo – «la Cina intende evitare l’escalation di attacchi fisici, manipolando invece, preventivamente se possibile, l’opinione della gente e delle élite degli Stati Uniti e dei suoi alleati, nonché i loro sistemi di intelligence e di comando». Secondo Pieranni anche gli USA sono impegnati da tempo in questo settore e mantengono ancora un vantaggio tecnologico ma, nondimeno, la questione rimane estremamente inquietante.

Simone Pieranni
2100
Come sarà l’Asia, come saremo noi
Mondadori, pp. 192, euro 18.50
Galliano Maria Speri