L’ultimo saggio di Paolo Guerrieri ricostruisce in modo rigoroso le grandi trasformazioni dell’economia mondiale, dalla prima fase della globalizzazione fino alla crisi iniziata nel 2008, che sancì uno spostamento progressivo del motore dell’economia verso l’Asia Pacifico e l’emergere della Cina come grande potenza internazionale. Oggi la principale questione strategica è il confronto tra Stati Uniti e Cina, con l’Europa in posizione defilata ma che rischia la definitiva marginalizzazione se non riuscirà a trovare unità d’intenti e una propria politica comune a livello economico e diplomatico.
L’autore insegna Economia alla Sapienza di Roma, dove si è laureato, per poi completare la propria preparazione a Oxford e Harvard. Ha pubblicato molti libri e centinaia di articoli di argomento economico. Uno dei pregi principali del suo saggio è quello di esprimersi in un linguaggio lontano dalle fumisterie, spesso usate da chi affronta argomenti economici, e riesce a delineare con chiarezza gli sviluppi degli ultimi decenni, senza però ricorrere a semplificazioni eccessive, che ne avrebbero potuto minare l’autorevolezza. Il docente romano inizia la sua analisi approfondendo il tumultuoso percorso della prima globalizzazione che, a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ha stabilmente modificato il panorama globale, sancendo il progressivo spostamento verso Oriente dell’asse economico mondiale.
Ascesa e caduta dell’economia globale
Non ci sono dubbi che la globalizzazione ha messo in moto un processo di crescita economica che ha notevolmente beneficiato i Paesi poveri che sono riusciti a inserirsi con successo nella nuova divisione internazionale del lavoro, fino alla crisi esplosa nel 2008, definita dall’Economist come il conto più salato nella storia dell’umanità. I dati dimostrano come “a partire dal 1990 e fino allo scoppio della pandemia il prodotto mondiale è aumentato di quasi tre volte e il commercio internazionale è cresciuto a tassi due volte più elevati, mettendo a disposizione beni e servizi da tutto il mondo; si è verificata una drastica riduzione della povertà a livello globale, con oltre un miliardo di persone che sono uscite dalla povertà estrema”. Guerrieri nota però che anche i costi sono risultati assai elevati, in termini di fabbriche chiuse e posti di lavoro distrutti, oltre che di crescenti disuguaglianze economiche e sociali, soprattutto nell’area avanzata. Di fronte a queste grandi trasformazioni, le politiche adottate dalla maggior parte dei paesi più avanzati si sono rivelate del tutto inadeguate. Si è intervenuti tardi e male, o addirittura per niente. E questo ha creato le precondizioni per la nascita di movimenti populisti che hanno portato alla Brexit e alla vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti.
In pochi anni è stato smantellato il duopolio Stati Uniti-Europa, che aveva dominato per due secoli il capitalismo mondiale, e si sono affermati nuovi protagonisti come la Corea, Singapore, l’India, ma soprattutto la Cina, con il suo capitalismo di stato che ha permesso una crescita strepitosa che però non ha voluto o potuto tener conto dell’impatto ambientale e sociale di certe scelte. Lo straordinario sviluppo della Cina per unanime riconoscimento ha modificato in pochi decenni e in modo radicale l’intera configurazione dell’economia mondiale: per la rapidità con cui si è verificato e per le gigantesche dimensioni del Paese e non ci sono dubbi che, almeno nei primi due decenni della globalizzazione, è stata proprio la Cina a trarre i maggiori benefici dal balzo in avanti dell’economia internazionale.
Come è ben noto, la crescita industriale della Cina ha preso l’avvio dalla fine degli anni Settanta,
grazie alle riforme economiche di Deng Xiaoping che si è servito del sistema dirigistico del Partito comunista per imporre drastici cambiamenti socio-economici, servendosi delle esportazioni come volano per lo sviluppo. La politica estera cinese di questo periodo è ben descritta da una frase attribuita a Deng, secondo il quale la Cina doveva “coprire le sue ambizioni e nascondere i suoi artigli”. Questa strategia è stata coronata da grande successo, ma è stata anche favorita dalla scelta degli Stati Uniti di avvantaggiarsi della struttura industriale cinese, verso cui hanno trasferito moltissime produzioni, prima realizzate sul territorio americano a costi molto più elevati. Sia gli USA che l’Europa si sono poi adoperati per consentire l’ingresso di Pechino nel World Trade Organization (l’Organizzazione per il commercio mondiale), illudendosi che questa scelta avrebbe trasformato la Cina in un attore responsabile del commercio mondiale e favorito l’evoluzione del Paese in senso più liberale e democratico. Purtroppo, queste si sono rivelate pie illusioni.
In realtà, Guerrieri spiega che la prima globalizzazione poggiava su basi molto fragili, come divenne subito evidente per la crisi che esplose alla fine del 2008 negli Stati Uniti per poi allargarsi progressivamente anche all’Europa l’anno dopo. Il fatto è che a Washington si era affermato un peculiare modello di crescita import-led, ovvero trainato dai consumi e dalle importazioni, che consentiva agli Stati Uniti di consumare più di quanto producessero grazie alla posizione centrale del dollaro nell’economia mondiale. Se a questo aggiungiamo l’accelerata liberalizzazione degli strumenti finanziari, matrice di un’euforia irrazionale che aveva aumentato a dismisura l’indebitamento pubblico e privato, possiamo capire come la bolla era vicina all’esplosione. Cosa che puntualmente si verificò, con il crack della Lehman Brothers. La teoria della capacità del mercato di autoregolarsi si dimostrò totalmente inconsistente e tutti i governi dovettero intervenire pesantemente per impedire un vero e proprio collasso dell’economia reale.
Imparare dagli errori
Il crollo dei prezzi immobiliari e la recessione del 2008-09 provocarono l’esplosione dei debiti privati e, a catena, crisi bancarie e dei debiti sovrani. In quell’occasione, l’Europa si rivelò incapace di fornire una risposta comune e scaricò il problema sulle spalle dei singoli Paesi, senza creare nessuna rete sistemica per l’area dell’euro nel suo complesso. Vennero introdotte misure di rigore e austerità fiscale in quasi tutti i Paesi europei, e ci si preoccupò solo degli eccessi di debito dei governi, evitando di prendere invece misure di stimolo che avrebbero potuto favorire la ripresa dell’economia. Tra il 2019 e il 2020 il mondo è stato colpito dalla pandemia del Covid-19 che ha avuto un impatto devastante sulla società e l’apparato produttivo. Ma, a differenza della crisi del 2008-09, questa volta l’Unione Europea è riuscita a formulare, dopo un aspro confronto tra gli stati membri, una strategia unitaria che ha portato alla nascita del piano denominato Next Generation EU (NGEU).
Il progetto, che entrerà in vigore nel corso del 2021, mette insieme risorse pari a 750 miliardi di euro, ed è finalizzato alla fase di ricostruzione e rilancio delle economie europee nel dopo Covid-19, e impegna il bilancio dell’UE per il periodo 2021-27. La sua componente principale (circa il 90% delle risorse complessive) è il Recovery and Resilience Facility (RRF), che ha una dotazione di 672,5 miliardi (312,5 trasferimenti e 360 prestiti ai paesi), da spendere entro il 2026. Il piano, sia per le sue dimensionl che per gli aspetti che contiene, potrebbe fornire un contributo determinante per modificare il nostro continente. La strategia poggia su due chiare direttrici: il Green Deal, lo sviluppo di un’economia che divenga finalmente compatibile con le esigenze dell’ambiente, e la trasformazione digitale dell’apparato produttivo e delle strutture pubbliche e private che lo sostengono. Il principale beneficiario dei fondi europei sarà l’Italia, che dovrà dimostrare la propria capacità di rispettare le regole dettate da Bruxelles e spendere nei tempi giusti i fondi che man mano arriveranno dall’Europa.
L’autore afferma che “il NGEU avrà successo, tuttavia, se riuscirà non solo a trasformare le economie europee nella direzione di una maggiore sostenibilità e inclusione sociale, ma se le risorse verranno utilizzate per accelerare la convergenza delle economie dell’Unione, evitando il rischio che la crisi del coronavirus accentui le divergenze e accresca il rischio di frammentazione”. Sarà anche necessario affrontare in modo congiunto il forte ritardo nei servizi cosiddetti ad alta intensità di conoscenza nei quali l’Europa è molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Rimane altresì fondamentale difendere il nostro apparato produttivo “da quelle acquisizioni e da quegli investimenti esteri che abbiano obiettivi marcatamente predatori nei confronti delle imprese europee, come spesso è accaduto in questi anni da parte delle imprese cinesi”.
Secondo l’autore, c’è oggi una diffusa consapevolezza che la Cina rappresenti, oltre che un partner commerciale di primaria importanza, un “rivale sistemico”, che utilizza il suo capitalismo di Stato, sorretto da generosi sussidi, per affermare una propria supremazia industriale e tecnologica a livello globale. E la crisi del Covid-19 ha accresciuto questi timori, con la percezione da parte di molti Paesi europei della forte asimmetria che caratterizza i loro rapporti con la Cina, a partire dall’eccessiva dipendenza in termini di sanità dalle forniture cinesi. Il saggio riporta che nel 2020 la Cina ha scavalcato gli Stati Uniti ed è diventata il principale partner commerciale dell’Unione Europea.
Le prospettive dell’Italia
Il nostro Paese è il principale beneficiario dei fondi Next Generation EU e questo può renderci giustamente orgogliosi, ma Guerrieri ribadisce quali sono i problemi storici di cui soffriamo da almeno tre decenni. Innanzitutto, mentre le economie orientali volavano e quelle dell’Occidente correvano durante la prima fase della globalizzazione, noi ci siamo dimostrati incapaci di agganciarci alle mutazioni in atto nell’economia globale. Il nostro sistema produttivo ha risentito degli effetti negativi della competizione dei Paesi emergenti, anche a causa della debole struttura produttiva, caratterizzata principalmente da imprese medio-piccole e che, negli ultimi decenni, ha visto scomparire tutte le più importanti grandi imprese manifatturiere. “Nel periodo di espansione dello scorso decennio – riferisce Guerrieri-, pressoché tutti i Paesi europei hanno recuperato e superato i livelli di reddito precedenti la Grande crisi finanziaria, mentre l’Italia non ci è riuscita. In questo modo, il PIL pro capite italiano che era 9 punti al di sopra di quello medio dell’area euro nel 1995, era sceso al di sotto nel 2019, di ben 10 punti“.
Vengono poi snocciolati i dati su altri problemi che caratterizzano l’Italia: l’enorme indebitamento, le differenze produttive e sociali tra Nord e Sud, la forbice tra la produttività delle imprese grandi e quelle più piccole, i gravi squilibri demografici, la scarsa digitalizzazione nell’industria e nell’amministrazione pubblica, il basso numero di laureati e di figure professionali che corrispondano ai bisogni delle imprese, l’inefficienza della spesa pubblica, l’abnorme evasione fiscale, la scarsa attenzione riservata ai giovani e al sistema educativo. Ma l’Italia ha anche tanti punti di forza, come la sua notevole capacità di esportazione che ci rende il secondo produttore manifatturiero dopo la Germania, o la sua grande capacità creativa, radicata in secoli di storia e tradizioni. Guerrieri conclude (e, certo, non si può dissentire) che il Next Generation Eu è un’occasione da non perdere perché un nostro fallimento si ripercuoterebbe in modo grave sullo stesso processo di integrazione dell’Europa “condannandoci a rimanere in quel prolungato declino che caratterizza ormai da troppo tempo l’economia e la società del nostro paese”.
Paolo Guerrieri
Partita a tre
Dove va l’economia del mondo
il Mulino, pagg. 256, 16 euro
Galliano Maria Speri