La Cina è troppo grande e importante per essere messa da parte. Ma è profondamente erroneo attaccarla, sempre e comunque, da un punto di vista ideologico o, peggio ancora, accettare semplicisticamente l’ineluttabilità di un suo predominio futuro. Pechino è già la seconda potenza economica mondiale e continuerà a esercitare la sua influenza anche nei prossimi decenni, per cui è una questione che va assolutamente affrontata. L’ultimo libro di Federico Rampini lo fa in modo corretto e competente, ponendo anche domande molto scomode sul ruolo di una quinta colonna radicale che, negli USA ma anche in Europa, amplifica la campagna propagandistica cinese.
Tra i pregi del libro, il cui autore è stato a lungo corrispondente da Pechino, c’è la sua chiarezza lineare che, senza semplificazioni approssimative, riduce le questioni strategiche alla loro essenza, e riporta una serie di dati oggettivi che, a prescindere dalla propria collocazione politica, vanno presi in considerazione per una analisi corretta dei complessi eventi contemporanei. Uno dei problemi sembra essere la tendenza delle elites occidentali ad accettare in modo acritico la linea ufficiale del Partito comunista cinese, anche quando questa si scontra duramente con la realtà e i fatti.
Una propaganda ipnotica
L’immagine che la Cina è riuscita a imporre nel mondo è quella di un Paese dinamico, moderno, pacifico, aperto alla collaborazione con tutti e che considera l’economia come uno strumento per arricchire tutti, la famosa strategia win-win. A differenza di quanto fu fatto dall’imperialismo occidentale, Pechino non intende soggiogare nessuno, né imporre con la forza la propria visione del mondo. Il suo impressionante espansionismo economico (ma anche militare), i cui brillanti successi sono davanti agli occhi di tutti, mira soltanto a migliorare i livelli di vita della propria popolazione, cooperando con tutti i Paesi che perseguono lo stesso, pacifico obiettivo. Ci sono però degli elementi che mettono in discussione questa immagine bonaria di vecchio saggio orientale che mira soltanto all’equilibrio e al progresso, nel rispetto agli interessi di tutti.
Anche se in Occidente è molto difficile capirlo, è un dato di fatto che la Cina ha una percezione razziale della propria politica. La popolazione appartenente all’etnia Han supera il 90 per cento e tutte le altre componenti etniche vengono guardate con sussiego se non con disprezzo vero e proprio. La civiltà cinese – ben più antica della “nazione” cinese, che è una creazione dell’Ottocento – si è sempre raffigurata come Terra di Mezzo, il centro del mondo, il cuore dell’universo. Il nazionalismo cinese, su cui nessuno può nutrire dubbi, è “solo la variante contemporanea di un etnocentrismo antichissimo. Aggiunge a quel senso di superiorità ancestrale alcuni innesti recenti come il darwinismo sociale: è l’idea che la competizione economica assomiglia a quella biologica, in cui vincono sempre i soggetti più forti, i più adatti a sopravvivere”.
Oltre al notissimo caso degli uiguri, perseguitati perché islamici e non appartenenti all’etnia Han, l’autore riporta il caso personale di Che Ghe, Shanza e Seila, i tre figli che ha adottato in Cina. I tre ragazzi appartengono alla minoranza Yi della regione del Sichuan, hanno tratti somatici un po’ simili ai tibetani e il colore della pelle più scuro, rispetto agli Han. “Le loro visite per me -scrive Rampini- erano fonte di gioia ma anche di imbarazzo e di vergogna, per quel che dovevano subire: nei ristoranti i camerieri si rifiutavano di servirli, nei negozi li sorvegliavano come ladri”. Quando cerca una scuola nella capitale che accettasse di iscriverli gli viene risposto di “cercargli un istituto per handicappati”. Nella manualistica diffusa dal regime comunista si afferma esplicitamente che gli Han sono più evoluti delle altre etnie perché è tra di loro che è maturata la rivoluzione comunista. Le etnie retrograde devono ispirarsi agli Han come a un modello da emulare. Una versione cinese del “fardello dell’uomo bianco” teorizzato da Rudyard Kipling.
Un altro grande successo della propaganda ufficiale è l’immagine radicalmente pacifica che Pechino si autoattribuisce. Ma la realtà è molto diversa. “Per limitarsi al suo passato recente e comunista: la Cina ha partecipato all’aggressione unilaterale contro la Corea del Sud (1950-53), ha attaccato l’India (1962), ha invaso il Vietnam (1979), ha scagliato le sue forze armate contro i propri civili indifesi (Pechino 1989), ha represso con interventi militari rivolte etniche in regioni storicamente non cinesi (Tibet, Xinjiang, 2008-09) ha calpestato gli impegni presi sul rispetto dell’autonomia di Hong-Kong (2019-21)”. Ma di tutto questo non c’è traccia nelle manifestazioni di protesta nelle università europee e americane che inveiscono soltanto contro l’imperialismo dell’Occidente.
Pecunia non olet
Mentre il presidente Trump attaccava rumorosamente Pechino, la Cina ha superato per la prima volta gli Stati Uniti nel campo degli investimenti nella ricerca ed è sostanzialmente avanti nel cruciale settore dell’intelligenza artificiale, un insieme di tecnologie con immense potenzialità sia per lo sviluppo economico che per quello industriale. Sono due fattori che dovrebbero contribuire a riunificare gli americani per fronteggiare questo pericoloso concorrente ma nulla di tutto ciò sta accadendo. L’elite finanziaria e le grandi imprese tecnologiche, che agiscono e guadagnano a livello globale, sono sostanzialmente filocinesi perché hanno da tempo anteposto i propri profitti personali ai valori e gli interessi degli Stati Uniti.
Non molti si rendono conto che la Apple ha il suo mercato principale proprio in Cina. Nel 2020 il 47 per cento delle sue vendite sono state fatte nel Paese del dragone, contro il 27 per cento degli Stati Uniti e il 12 per cento dell’Europa. Il saggio riporta inoltre un episodio che ha coinvolto un dirigente della National Basketball Association (Nba) che aveva osato criticare la Cina per la sua repressione a Hong-Kong. Contro di lui si era prontamente levato il noto giocatore LeBron James, grande sostenitore del movimento Black Lives Matter, che ha difeso l’operato di Pechino. Il fatto è che la Nba ha un contratto da un miliardo e mezzo di dollari con il gigante digitale cinese Tencent, che è il maggiore sponsor del basket americano al di fuori degli Stati Uniti. Rampini commenta dicendo che “questi miliardari o multimilionari che si considerano di sinistra sono severi nel denunciare le piaghe dell’America, tacciono sulla Cina e chiedono ai propri connazionali di autocensurarsi di fronte agli abusi del regime comunista. Sono la “quinta colonna” su cui può contare Xi Jinping per difendere le sue tesi presso l’opinione pubblica americana”.
Quando la Cina viene criticata per il mancato rispetto dei diritti umani, la propaganda di Pechino solleva immediatamente la bandiera del movimento radicale Black Lives Matter, che attacca giustamente la brutalità delle forze dell’ordine, ma lo fa con richieste folli come la riduzione generalizzata dei fondi alla polizia. In quei comuni dove i sindaci hanno ceduto a tali richieste demagogiche si è avuto un aumento drammatico degli omicidi e della violenza, ma è difficilissimo far emergere i numeri reali. È vero che “le brutalità della polizia sono odiose e criminali, ma non provocano neppure l’un per cento dell’ecatombe di neri americani uccisi ogni anno. La strage quotidiana avviene a opera di altri neri, per le sparatorie nei quartieri dove domina una sottocultura Black, il ruolo delle gang, l’etica delle vendette, la tolleranza verso la criminalità, lo sfascio dell’istituzione familiare”.
Black Lives Matter ha alleati potenti nella sinistra delle università e dei grandi media. Secondo Rampini, “il New York Times ha sostenuto il ‘1619 Project’ e la Critical Race Theory, che puntano a riscrivere tutti i manuali scolastici ponendo al centro della storia degli Stati Uniti l’anno d’origine dell’importazione di schiavi, dunque lo schiavismo come tara genetica che spiega tutta la storia successiva. Nelle scuole pubbliche, il sindacato degli insegnanti è un’efficace cinghia di trasmissione per l’egemonia culturale del politically correct”. Negli atenei americani è vietato insegnare che l’antica pratica dello schiavismo era presente in tutte le civiltà, imperi africani inclusi, e che tra i maggiori profittatori della tratta di carne umana ci furono sempre gli arabi (allora come oggi). Come si può vedere, è la situazione ideale per la propaganda del Partito comunista cinese.
Una potenziale lezione per l’Italia
L’epilogo del libro riporta considerazioni molto amare su un difetto storico del Bel Paese: il provincialismo più gretto e l’autoreferenzialità della classe dirigente. Mentre stanno avvenendo i drammatici sviluppi che abbiamo illustrato sopra “la classe dirigente politica, l’alta burocrazia, il mondo dei media credono che il centro dell’universo sia tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama. Si raccontano e vi raccontano un piccolo mondo locale che è molto più angusto del vasto mondo là fuori”. Rampini cita un episodio recente, molto indicativo ma sostanzialmente trascurato dai media, e cioè che la Corea del Sud ha sorpassato l’Italia nella classifica mondiale del Pil. Oltre ad aver creato una filmografia di successo e gruppi pop che hanno un enorme successo tra i giovani a livello internazionale.
Questo sorpasso è un chiarissimo segnale che riflette quali sono le nuove gerarchie mondiali. Se in Italia ci fosse una classe dirigente degna di questo nome, avremmo dovuto vedere i migliori esperti messi alacremente al lavoro per studiare i segreti di questa ascesa prodigiosa (il saggio ricorda che negli anni Cinquanta del secolo scorso la Corea del Sud era molto più povera dell’Egitto, della Siria, dell’Algeria e dell’Iraq). Ma nessuno sta prendendo alcuna iniziativa al riguardo, anche se potrebbe essere interessante farsi spiegare come si fa a diventare una grande potenza industriale a livello mondiale in soli sette decenni.
Galliano Maria Speri
Federico Rampini
Fermare Pechino.
Capire la Cina per salvare l’Occidente
Mondadori, pp 318, 19 euro