La maggior parte degli analisti ritiene che l’aggressione di Putin all’Ucraina sia un evento destinato a plasmare i rapporti Est-ovest dei prossimi decenni o, nell’ipotesi peggiore, a scatenare uno scontro militare che avrebbe conseguenze devastanti per l’Europa e il mondo. Ecco perché è fondamentale conoscere le radici storico-politiche di questa guerra e non schierarsi sulla base di linee ideologiche o ripetendo alla lettera le tesi della desinformatija russa. Un accurato saggio accademico ci aiuta a capire la storia e i fatti.
Il volume, curato da Giorgio Cella, è stato stampato qualche mese prima dell’invasione ed è giunto alla sua terza edizione, segno del notevole interesse suscitato tra gli studiosi e il più vasto pubblico. Il lungo excursus parte da Erodoto e giunge fino ai noti eventi di Euromajdan che hanno sancito la scelta ucraina di collocarsi saldamente in Occidente. L’autore ricostruisce un mosaico culturale di grande interesse, spaziando in modo erudito lungo i secoli, gli eventi e i popoli di questo crocevia di religioni, imperi e identità: dalla Rus’ di Kiev ai cosacchi ucraini, dalle contese tra russi, polacchi e turchi sino all’era postsovietica e al processo di allargamento a est della NATO.
L’Ucraina e il Great Game
Prima di addentrarci in un’analisi più approfondita, dovremmo riflettere sulla collocazione geografica del Paese e sull’etimologia del suo nome che, come dicevano i latini, racchiude il suo destino: u significa infatti “sul” e kraj “confine”. L’Ucraina è una terra di confine per eccellenza, lo snodo che collega l’Occidente con l’Oriente e, inevitabilmente, un terreno di confronto nelle fasi di tensione Est-Ovest. L’autore usa il termine Great Game, che designa storicamente l’antagonismo della Russia zarista e dell’impero britannico nel XIX secolo, per analizzare il complesso scontro nell’Europa centro-orientale nel XVII secolo. Lo stesso termine può essere utilizzato oggi anche per descrivere gli eventi che si sono succeduti dopo il 24 febbraio 2022. Sulle nere terre d’Ucraina non si stanno confrontando semplicemente due nazionalismi, uno invasore e l’altro vittima, ma anche due diverse visioni del mondo in un momento di grande tensione internazionale come non avveniva dalla crisi di Cuba del 1962.
L’accurata esposizione della complessa storia ucraina ha il grande pregio della chiarezza e del rigore ma è abbastanza nota. Un grande punto di interesse sono invece le ricostruzioni degli eventi più vicini a noi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’ambivalente reazione statunitense che, alla luce della guerra in atto, ha mostrato di non essere riuscita a cogliere un’occasione forse unica per un futuro di pace e stabilità. Un argomento propagandistico, usato più volte dai russi e anche dallo stesso Putin, è la questione della broken promise, cioè la promessa americana di non espandere la NATO a Est, in cambio dell’assenso russo alla riunificazione della Germania. Cella fornisce un’ampia documentazione che prova come non ci sia mai stato un impegno scritto da parte statunitense e che la questione del non allargamento ad Est fosse semplicemente un’aspettativa da parte dei russi.
D’altronde, un’intervista concessa da Michail Gorbačëv nel 2014 conferma che la questione
dell’espansione della NATO non fu mai sollevata nei colloqui USA-URSS sulla riunificazione tedesca e che tutte le clausole chieste da Mosca furono poi rispettate. Ma questo non è il punto principale perché, anche se Washington non ha mai promesso di limitare l’espansione della NATO verso gli ex Paesi comunisti, ciò non toglie che proprio negli anni del crollo dell’Unione Sovietica, si presentò un’occasione irripetibile, che venne lasciata cadere, per ridefinire i rapporti Est-Ovest all’interno di una nuova cornice securitaria che avrebbe garantito una progressiva denuclearizzazione e smilitarizzazione dei due blocchi.
Nel 1990, ancor prima della fine dell’URSS, un incontro della NATO tenuto a Turnberry in Scozia aveva intravisto l’opportunità storica di creare un ordine pacifico in Europa e il documento finale della NATO dichiarava: “In questo spirito noi tendiamo all’Unione Sovietica e a tutti gli altri Paesi la mano dell’amicizia e della cooperazione”. Per un attimo, il presidente George H. W. Bush immaginò di potersi affrancare dalla tradizionale politica di potenza e tentare la costruzione di una nuova architettura di sicurezza. Ma non fu rieletto, Gorbačëv fu travolto dal tentativo di golpe dei tradizionalisti e la nuova amministrazione Clinton, avendo vinto lo scontro con il comunismo, non vide motivi per coinvolgere una Russia indebolita nella definizione di un nuovo ordine mondiale. In pratica, veniva abbandonata la duplice strategia della NATO che, da un lato puntava a integrare gli ex alleati sovietici, ma anche a costruire parallelamente un buon rapporto con la Federazione russa.
Il Memorandum di Budapest
La linea del nuovo zar di Mosca per giustificare la sua aggressione all’Ucraina è ben nota: la Russia è stata costretta all’invasione dalle continue pressioni militari della NATO che si è allargata fino a rappresentare una minaccia diretta al territorio di Santa madre Russia. Il saggio di Cella riporta un importante accordo che fu raggiunto a Budapest nel 1994, durante i negoziati per la consegna delle testate nucleari che, dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, erano in possesso di Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. L’intesa prevedeva che i tre stati conferissero il loro intero arsenale alla Russia, erede unica dell’Unione Sovietica e, in cambio, gli Stati Uniti, la Russia e il Regno Unito si impegnavano a garantire la loro sicurezza. Successivamente, in un accordo separato, si aggiunsero anche Francia e Cina. L’Ucraina, che in quel momento possedeva 4000 ordigni nucleari sia tattici che strategici, sotto le pressioni occidentali accettò di privarsi in toto del proprio arsenale e firmò quello che fu definito Memorandum di Budapest.
Il documento firmato nella capitale ungherese recepiva i princìpi dell’accordo di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza del 1975, tra i quali il rispetto dell’inviolabilità dell’indipendenza, della sovranità e dei confini dell’Ucraina, l’astensione dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’astensione dal ricorrere all’uso di pressioni politiche ed economiche coercitive. Il fatto è che dopo Euromajdan, la Russia ha iniziato una guerra ibrida contro l’Ucraina. Inoltre, nel 2014 Mosca è intervenuta direttamente impossessandosi della Crimea manu militari, in flagrante violazione degli accordi di Budapest. A quel punto, di fronte al dovere di un intervento diretto, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno sollevato questioni sull’opacità delle clausole dell’accordo e hanno fatto una distinzione sottile tra “security guarantees” (che obbligano all’intervento) e “security assurances” (più generiche e non implicano una risposta militare).
Dal punto di vista russo, l’annessione della Crimea del 2014 non costituirebbe una violazione sostanziale degli accordi siglati a Budapest perché, come ha affermato il ministro degli esteri Sergej Lavrov, la Russia non ha mai minacciato l’uso di armi nucleari contro il territorio ucraino. In secondo luogo, la risposta russa è stata indirizzata verso un nuovo governo illegittimo uscito da uno sconvolgimento politico anticostituzionale, percepito da Mosca più come un colpo di stato, istigato e sostenuto da forze esterne, che come una genuina rivoluzione popolare. Volendo prendere per buone le argomentazioni di Mosca, incluso il diritto autoproclamato di difendere le genti russofone anche al di fuori dei confini nazionali, il problema è che la mattina del 21 settembre 2022 (e questo ovviamente non è riportato dal saggio) Vladimir Putin è andato in televisione e ha annunciato che, di fronte a una minaccia che mettesse in pericolo l’esistenza stessa della Russia, egli è pronto a usare qualsiasi arma, inclusi ordigni nucleari tattici. Stavolta la minaccia dell’uso dell’arma nucleare contro l’Ucraina c’è tutta, con buona pace del vittimismo russo e delle argomentazioni di quegli occidentali sciocchi che ci cascano.
Anche se precedenti all’invasione russa che, comunque la si voglia valutare, rappresenta uno spartiacque negli eventi di questo concitato inizio di XXI secolo, le conclusioni di Cella rimangono valide. “Se Bruxelles sul lungo periodo dovesse perdere la scommessa ucraina, ciò avrebbe pesanti conseguenze sul già fiaccato progetto europeo e sulla crescente instabilità che, non solo a causa dei vari attriti lungo la frontiera mobile tra Europa ed Eurasia, sta negli ultimi anni ledendo la stabilità geopolitica e la credibilità del Vecchio continente. Se infatti a ogni allargamento comunitario, di cui la contesa ucraina rappresenta il test più grave ed emblematico, il peso politico, la coesione e l’idea di (questa) Europa si dovessero fare più incerti, le plausibili conseguenze potrebbero essere o una nuova epoca di confronto e divisione, o una deriva balcanica della stessa realtà comunitaria”. Visto che da poco l’Italia ha rinnovato Camera e Senato, e che la situazione Ucraina rimane, purtroppo, sempre all’ordine del giorno, ci permettiamo di consigliare la lettura di questo saggio a tutti i nuovi parlamentari che, in questo modo, potranno chiarirsi le idee prima di fare dichiarazioni pubbliche basate sul nulla.
Giorgio Cella
Storia e geopolitica della crisi ucraina
Dalla Rus’ di Kiev a oggi
Carocci, 352 pag., 36 euro
Galliano Maria Speri
(La foto dello sfondo è di Evgeny Feldman)